Che il teatro La Fenice finisca sul Financial Times per una controversia di cui è difficile definire i contorni e non per l'ennesimo trionfo artistico è già di per sé eloquente. Eppure eccoci qui, a discutere non di una prima verdiana o di un'esecuzione memorabile, ma di una nomina che ha sollevato un'ondata di proteste senza precedenti nel mondo della musica classica italiana.
La Fenice: quando la nomina del direttore va oltre la cultura
Ieri, il quotidiano finanziario britannico ha dedicato ampio spazio alla vicenda che vede protagonista Beatrice Venezi, designata come nuovo direttore musicale del teatro veneziano. Una scelta che avrebbe dovuto rappresentare un momento storico, essendo lei la prima donna a ricoprire questo ruolo in una istituzione fondata nel 1792 e calcata da giganti come Giuseppe Verdi. Invece, l'orchestra ha prima minacciato e poi confermato, dopo una serie di mediazioni andate in fumo, lo sciopero per la prima del Wozzeck di Alban Berg del 17 ottobre. E lo ha fatto sostenuta da colleghi di tutta Italia, col risultato che la questione ha assunto dimensioni che vanno ben oltre i confini del teatro.
Il Financial Times non usa mezzi termini nel riportare le contestazioni: i musicisti sostengono che il curriculum vitae della Venezi «non è minimamente paragonabile a quello dei grandi direttori che in passato hanno impugnato la bacchetta alla Fenice». Una formulazione diplomatica che tuttavia lascia trasparire il nocciolo della questione: non si tratta di pregiudizi, ma di competenza professionale. O meglio, di quella maturità artistica che si acquisisce attraverso un percorso consolidato, riconosciuto, verificabile. Fabio Luisi, direttore d'orchestra di fama internazionale, è intervenuto nei giorni scorsi sul Corriere della Sera con parole che meritano attenzione.
«La scelta di un direttore musicale va condivisa con le masse artistiche, che qui sono state messe di fronte al fatto compiuto», ha dichiarato, sottolineando come sia «impossibile non coinvolgere le masse artistiche in una scelta di questo genere» per un teatro storico che fa il tutto esaurito e che è stato guidato da personalità del calibro di Chung e Harding. Sul piano tecnico, Luisi non lascia spazio a interpretazioni: «La gestualità è rudimentale, non è matura. Ha un impatto limitato, non c'è corrispondenza tra le idee musicali e il gesto che le deve comunicare».
E ancora: «Ci sono situazioni in cui il gesto non è ancora maturo ma si vede talento: in lei, non lo vedo». Parole dure, pronunciate da chi quella bacchetta la conosce nei teatri di mezzo mondo - teatri che contano per davvero non palcoscenici minori - e che riportano il discorso alla dimensione che gli compete: quella della preparazione tecnica, dell'esperienza maturata sul campo, del repertorio costruito anno dopo anno. Perché questo è il punto. Esiste una consuetudine, non scritta, ma rispettata ovunque nel mondo della musica, che prevede il coinvolgimento dell'orchestra nella scelta del proprio direttore principale. I Berliner Philharmoniker l'hanno addirittura inserita nello statuto: il direttore viene votato dai musicisti.
Claudio Abbado fu scelto all'unanimità come successore di Karajan. Simon Rattle, che non ottenne il consenso totale, volle incontrare personalmente ogni singolo musicista che non lo aveva votato prima di accettare l'incarico. Alexander Pereira, prima di nominare Riccardo Chailly alla Scala, consultò l'orchestra con un sondaggio. Esempi che parlano da soli. Perché un'orchestra non è un'azienda dove uno comanda e cento eseguono.
È una comunità di professionisti altamente qualificati (assunti per concorso) che devono condividere una visione artistica, costruire insieme un'interpretazione, raggiungere quell'eccellenza che nasce solo dalla reciproca stima e dalla fiducia. E come può un direttore ottenere il meglio da musicisti che non lo riconoscono come guida? Come si costruisce quel rapporto alchemico necessario a trasformare le note in arte sublime?
La difesa politica della nomina ha puntato su due argomenti: il sessismo e l'appartenenza ideologica. Luca Zaia ha insinuato che se la Venezi non fosse «una donna giovane e attraente» non ci sarebbe polemica.
Il ministro della Cultura Alessandro Giuli ha bollato le proteste come «ingiustificate», definendo la Venezi «un'artista eccellente». Ma i musicisti respingono entrambe le accuse. Gianna Fratta, una delle direttrici d'orchestra più affermate d'Italia, lo ha detto chiaramente nelle parole rilanciate dal Financial Times: «Le orchestre vogliono solo avere buoni direttori. A loro non interessano il sesso, l'età, la politica. Noi parliamo solo il linguaggio della musica».
Fabio Luisi, dal canto suo, è stato altrettanto netto: «Discriminazioni di genere non esistono più, ci sono tante direttrici bravissime con incarichi importanti». E quando gli si chiede se l'orchestra della Fenice sia tutta comunista, risponde con eleganza: «Che il teatro, in modo garbato, legittimo, fondato, abbia espresso all'unanimità la sua opinione, è la risposta». Resta poi una questione di metodo, che il maestro Luisi espone con lucidità: «Una nomina quadriennale senza un provino davanti all'orchestra è rischiosa e contraria alla prassi standard in tutto il mondo».
Nel mondo anglosassone, spiega, sono gli sponsor a entrare nella musica, non la politica. Le commissioni che decidono includono il manager dell'orchestra, il direttore artistico e alcuni musicisti. «Anche in Europa le masse vengono interpellate, e prima di assumere un incarico un direttore deve averci lavorato, cosa che non è avvenuta in questa vicenda. Io ho sempre preso orchestre che mi hanno votato all'unanimità».
Il riferimento al Festival di Sanremo, tirato in ballo da chi sostiene la Venezi per esaltarne il curriculum, suscita poi nel maestro una replica emblematica: «Mi sembra un altro mestiere, non ha niente a che vedere col profilo di un direttore d'orchestra». E qui emerge tutta l'assurdità della situazione: chi dovrebbe difendere la candidata finisce per esporla, mettendola in una condizione difficilissima. «A trentacinque anni, un direttore è un bambino. Ha tanto tempo davanti per costruire un percorso», osserva Luisi, aggiungendosi a coloro che sperano in un passo indietro «nel suo interesse e in quello del teatro». La verità è che La Fenice non è, per usare le parole di Luisi, «un campo di addestramento per un giovane direttore d'orchestra». È un'istituzione che merita un professionista di comprovata esperienza internazionale, qualcuno che abbia alle spalle collaborazioni stabili con le grandi orchestre del mondo, un repertorio vasto, una maturità artistica conquistata nel tempo.
Non si tratta di negare opportunità, ma di rispettare le proporzioni. Esistono percorsi di crescita, gavette necessarie, palcoscenici dove costruire la propria credibilità prima di ambire ai vertici. Che tutti i principali teatri italiani - dalla Scala all'Arena di Verona, dal Regio al Petruzzelli - abbiano espresso solidarietà all'orchestra della Fenice dice molto. Dice che qui non si discute di genere, bellezza o di opinioni politiche, ma di standard professionali. Dice che quando un'intera comunità artistica si solleva unanimemente, forse vale la pena ascoltare. E fare, appunto, un passo indietro. Il paradosso è che la vera vittima di questa vicenda potrebbe essere proprio Beatrice Venezi. Perché una carriera si costruisce con pazienza ed umiltà, conquistando sul campo la stima dei colleghi, accumulando esperienze che parlano da sole.
Quando tutto questo viene bypassato, quando si arriva troppo presto troppo in alto, il rischio è di bruciarsi. E la musica, maestra severa, non perdona. Non fa sconti a nessuno. Parla solo il linguaggio dell'eccellenza, e davanti a quello, contano poco le dichiarazioni dei ministri o le minacce di azioni legali. Difficile non provare un senso di smarrimento nel vedere un tempio della musica come La Fenice ridotto a caso politico. E però un teatro che porta nel nome stesso l'idea della rinascita siamo sicuri che risorgerà. Continuerà a produrre bellezza, a conquistare il rispetto del mondo. E quando tornerà sui giornali internazionali, sarà per celebrare quella bellezza. Non per compiangerne la ferita. E allora... all’alba vincerà!