Cultura

La "Diplomazia della rissa", quando le parole diventano armi

di Demetrio Rodinò
 
La 'Diplomazia della rissa', quando le parole diventano armi
Con "La diplomazia della rissa" (FrancoAngeli, 2025), Stefano Polli, Renato Vichi e Antonio Picasso firmano un saggio che è, insieme, un manuale di sopravvivenza linguistica e un atto d’accusa contro il degrado del linguaggio politico e diplomatico contemporaneo. È un libro che si legge come un reportage, si gusta come un romanzo civile e si teme come un bollettino di guerra, perché di guerra si parla, e non solo quella combattuta con le armi.

La prefazione di Giampiero Massolo, diplomatico di lungo corso, inquadra subito la questione: le parole sono diventate weaponizzate, trasformate in strumenti di contrapposizione e manipolazione. In passato, scrive, la diplomazia si muoveva tra le sfumature del linguaggio. Oggi, nella società dell’istantaneità, la forma è diventata essa stessa sostanza di potere. È la "diplomazia dell’urlo", quella dei tweet presidenziali e delle conferenze stampa usate per aggredire più che per chiarire.

Gli autori partono da una constatazione tanto semplice quanto inquietante: le parole stanno male, "hanno la febbre". La diplomazia, quella vera, "sembra in ferie da un bel pò", sostituita da una retorica gridata, da leader che confondono fermezza con arroganza e consenso con volume della voce. L’introduzione, di taglio quasi cinematografico, mette in scena un mondo che ha scambiato la velocità per autorevolezza e la semplificazione per verità. "Abbiamo smesso di ascoltare", scrivono, e la perdita di ascolto ha generato un cortocircuito globale: quando il dialogo muore, restano solo i monologhi armati.

Il volume alterna l’analisi storica all’osservazione del presente, intrecciando citazioni di Churchill e Merkel con episodi di attualità che scorrono come capitoli di un racconto sull’umanità digitale. Si va dal "ciclone Trump" e la sua grammatica brutale del potere, fino alle derive comunicative di Erdogan, Putin e Biden, passando per le "parole che uccidono" nella guerra tra Israele e Iran. Ogni capitolo mostra come il linguaggio sia diventato il primo fronte della geopolitica, non più strumento di negoziazione, ma arma di distruzione semantica.

C’è, in queste pagine, il gusto dell’ironia amara, gli autori citano Nanni Moretti in Palombella rossa - "Le parole sono importanti!" - per ricordare quanto la degradazione del linguaggio coincida con quella del pensiero. La diplomazia, spiegano, non è mai stata un salotto di buone maniere, ma oggi ha perso il suo codice. I leader comunicano per slogan, spesso saltando i mediatori naturali dell’informazione, i giornalisti, e affidandosi ai social, che pretendono messaggi brevi, aggressivi, istantanei. È qui che la velocità diventa nemica della verità.

Il libro, pur senza cadere nella nostalgia per un passato idealizzato, mette a nudo la crisi culturale che attraversa la politica internazionale: una crisi di linguaggio, quindi di civiltà. Per Polli, Vichi e Picasso, la diplomazia non è morta, ma è stata "improvvisata". Gli inviati speciali che la praticano oggi provengono spesso dalla politica o dall’economia, non dalla scuola diplomatica. Risultato? I negoziati sembrano talk show, le conferenze stampa arene da ring televisivo.

La scrittura è limpida, scorrevole, mai accademica. Si avverte la volontà di costruire un saggio accessibile, rivolto a chi vuole comprendere non solo la geopolitica, ma la cultura del linguaggio che la governa. Ogni pagina è intrisa di un’urgenza etica: "Le parole si possono caricare come pistole", ammonisce il libro, e ogni parola sbagliata mina le fondamenta stesse della democrazia.

La parte più incisiva è forse quella dedicata alla post-verità. Gli autori ribaltano un luogo comune: non viviamo nell’epoca delle fake news, che sono sempre esistite, ma in quella della verità liquida, dove il fatto perde consistenza e la percezione diventa realtà. La velocità dei social, l’assenza di filtri giornalistici, la disattenzione collettiva hanno costruito un ecosistema in cui la propaganda sostituisce l’informazione e la semplificazione annienta la complessità.

Eppure, i problemi non mancano, e una comunicazione attenta e precisa sarebbe fondamentale per i cittadini del mondo che sempre più guardano al domani con preoccupazione e, a volte, con angoscia. Tra le guerre e le crisi globali, ciò che non possiamo dimenticare è che il futuro dei giovani e il peso della povertà restano i veri barometri della nostra civiltà: se non sapremo dare risposte inclusive e condivise, il linguaggio della pace rimarrà un’eco spenta e la diplomazia un esercizio sterile.

È in questa prospettiva che "La diplomazia della rissa" si propone come un’anticamera della pace, uno spazio di attesa e di coscienza, dove poter imparare di nuovo ad abitare le parole giuste, quelle capaci di aprire strade e non di chiuderle, di costruire ponti e non di alzare muri. Perché senza un nuovo alfabeto di pace, il mondo continuerà a parlare la lingua della sua distruzione.

Il libro non è un atto di resa, ma un invito alla responsabilità collettiva. Come scrive Massolo nella prefazione, "difendersi dall’uso militare del linguaggio è un’operazione di igiene culturale". La diplomazia della rissa è dunque un testo di grande attualità, tanto per chi si occupa di relazioni internazionali quanto per chi semplicemente vuole capire come la comunicazione plasmi la politica e la convivenza civile. Un libro da leggere nelle redazioni, nei ministeri, ma anche nei social network, dove oggi si gioca la vera partita del consenso.

In fondo, "La diplomazia della rissa" ci ricorda che le parole non sono solo strumenti, ma habitat, il luogo dove la civiltà abita o, se abusato, dove rischia di estinguersi.
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