Cultura

Boris Spassky, addio a una leggenda degli scacchi

Redazione
 

Nell'epoca contemporanea, dominata dalla smania del “tutto e subito”, parlare di un gioco che esige lentezza, concentrazione, disciplina ed equilibrio appare quasi un esercizio anacronistico. Eppure, proprio in questo tempo di oblio culturale e di superficialità dilagante, il gioco degli scacchi si erge come una metafora imprescindibile della vita, richiamando l'attenzione sull'importanza del rispetto delle regole, della riflessione strategica e del confronto leale.

Boris Spassky, addio a una leggenda degli scacchi

E dire che le nuove generazioni, intrappolate come sono nel “mordi e fuggi” che incombe su quasi ogni aspetto della società odierna, potrebbero trarre immensi benefici dalla pratica di questa disciplina che insegna non solo a giocare ma anche (e soprattutto) a pensare, a osservare e a comprendere l'altro con empatia e rispetto.

Perché gli scacchi, laddove se ne comprenda l’essenza, possono essere molto più di un mero passatempo sino a diventare un’opportunità di crescita. Anzi, una vera e propria palestra divita. Perché negli scacchi, come nella vita appunto, ogni mossa conta ed ogni errore può essere fatale: una lezione preziosa in un'epoca in cui l'incapacità di accettare il fallimento conduce spesso a reazioni sproporzionate e figlie della più becero istinto.

E tra i grandi maestri che hanno incarnato lo spirito più nobile di questa disciplina spicca Boris Spassky, leggenda della scacchiera, scomparso ieri all'età di 88 anni. Nato a Leningrado, oggi San Pietroburgo, fu campione del mondo dal 1969 al 1972 e vinse otto medaglie d'oro alle Olimpiadi degli scacchi. Tuttavia, il suo nome è legato indissolubilmente alla cosiddetta “sfida del secolo”, la leggendaria partita che lo vide contrapposto all'americano Bobby Fischer nel 1972.

Uno scontro epico, che non fu solo una battaglia intellettuale tra due delle menti più brillanti del panorama scacchistico, ma il simbolo della contrapposizione tra due modelli di società: il capitalismo statunitense e il comunismo sovietico, in un momento storico in cui la Guerra Fredda permeava ogni ambito della vita politica e culturale. Giocato a Reykjavík, in Islanda, il match si protrasse per mesi e fu caratterizzato da tensioni psicologiche estreme, manovre strategiche raffinate e colpi di scena degni di un dramma teatrale. Fischer, noto per le sue eccentricità e il suo carattere imprevedibile, mise a dura prova Spassky con una serie di richieste e sceneggiate che avevano il chiaro intento di destabilizzarlo. Alla fine, il campione sovietico fu costretto alla resa, e il verdetto non venne accolto con indulgenza dal regime sovietico, per il quale la sconfitta rappresentava molto più di un semplice evento sportivo. Nonostante l'amarezza di quella perdita, Spassky rimase una figura di riferimento nella storia degli scacchi.

Nel 1974 dovette affrontare un'altra prova difficile, la sconfitta contro il giovane e talentuoso Anatolij Karpov, destinato a diventare uno dei più grandi campioni della storia del gioco. L'inesorabile avanzata del tempo lo spinse gradualmente fuori dai grandi tornei, portandolo nel 1976 a trasferirsi in Francia, dove ottenne la cittadinanza e trascorse il resto della sua vita lontano dalle luci della ribalta. Nel 1992 accettò una sfida non ufficiale contro Bobby Fischer, disputata in Jugoslavia, ma anche in quell'occasione dovette cedere al talento dell'avversario.

Nonostante tutto, la figura di Spassky, con la sua eleganza strategica e il suo spirito sportivo, resta impressa nella memoria collettiva come simbolo di una disciplina che va ben oltre la scacchiera. Tanto che il presidente della Federazione Scacchistica Russa, Andrei Filatov, nel ricordarlo ha sottolineato come il suo contributo agli scacchi sia stato immenso e come generazioni di giocatori continuino a studiare le sue partite con ammirazione e rispetto. Una scomparsa, quella di Spassky, che ci invita a riflettere sull’importanza della strategia, della pazienza e della lungimiranza, qualità oggi sempre più rare.

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