The New Art: American Photography, 1839–1910, fino al 20 Luglio al Metropolitan Museum of Art, si rivela come una sontuosa e rigorosa orchestrazione visiva, un compendio di immagini che, attraverso una raffinata metodologia tipologica, indaga l’alba dell’identità americana lungo un arco temporale che si estende dall’invenzione del mezzo fotografico fino ai primi decenni del Novecento.
The New Art: al Met un’elegia visiva sulle origini della fotografia americana
In questa sapiente e misurata mise-en-scène, composta da oltre duecentocinquanta opere, la fotografia si fa specchio e misura, non della cronaca ma della forma, in un percorso espositivo che evita la narrazione lineare in favore di una grammatica dello sguardo fondata sulla ricorrenza, sulla giustapposizione, sulla composizione silenziosa. Non è l’individuo raffigurato a prevalere, ma l’eco visiva della molteplicità: pose reiterate, gesti trattenuti, vuoti eloquenti e strutture ricorrenti tessono una trama iconografica dove il significato scaturisce non dall’eccezione, ma dall’analogia.
Ogni stampa, offerta al fruitore come un frammento esemplare, si presenta con la medesima intensità di un esemplare naturalistico, e come in un erbario ordinato con perizia tassonomica, l’immagine si affranca dalla contingenza per aspirare all’universale. L’influenza delle rigorose tipologie mitteleuropee, e in particolare dell’ascetico sguardo tedesco, si fa sentire in ogni scelta curatoriale, nel rigore misurato delle sequenze, nella compostezza del linguaggio visivo, in una sobrietà estetica che rifugge ogni vezzo emozionale o gesto improvviso.
Qui, la fotografia americana delle origini si distacca radicalmente dal paradigma dell’istantaneità e si afferma come atto ponderato, costruzione cosciente, rituale della posa. Nulla è lasciato al caso: lo sguardo dei soggetti non è colto, ma offerto; non rubato, ma composto; non evocato, ma scolpito nella lente del tempo. Ritratti di famiglia si affiancano alle immagini dei defunti; la grazia rigida dei bambini convive con la presenza silenziosa delle comunità afroamericane; la devastazione delle popolazioni native emerge come elemento strutturale. Tutto questo è reso attraverso una coerenza visiva che evita deliberatamente il pathos a favore della narrazione storica.
Oltre a fotografi di fama come Josiah Johnson Hawes, John Moran, Carleton E. Watkins e Alice Austen, la mostra porta alla luce anche il lavoro di professionisti anonimi o meno noti, ampliando la narrazione ufficiale della storia della fotografia per includere una moltitudine di prospettive trascurate, non meno significative per il loro status marginale. Particolare attenzione è data alla rappresentazione degli afroamericani, che dalla Guerra Civile in poi hanno utilizzato la fotografia come strumento per sovvertire le identità visive imposte. In questo contesto, Frederick Douglass si distingue come figura centrale: per lui, la fotografia era un diritto, un mezzo per rivendicare una presenza iconica e l'autorappresentazione. All'interno della mostra, uomini e donne di colore non sono soggetti passivi dello sguardo della macchina fotografica ma partecipanti attivi al dialogo visivo, rivendicando il loro posto con compostezza e chiarezza.
Lo stesso sguardo impassibile definisce le immagini dell'America rurale, delle città in crescita e dei paesaggi colonizzati. Queste fotografie non narrano, isolano: tutto è trattato con la stessa distanza analitica. Le grandi fratture della storia americana, l'esodo dei nativi, la schiavitù, la guerra civile, l'urbanizzazione, non sono drammatizzate ma messe in sequenza, offerte come dati visivi all'interno di una sintassi spogliata di gesti retorici.
Una selezione accurata di apparati fotografici del XIX secolo rappresenta sia un riferimento storico che la chiave metodologica della mostra che conchiude. Non si tratta semplicemente di reliquie di una tecnologia passata, ma di strumenti culturali che ancora oggi testimoniano la complessità dell'atto fotografico nei suoi anni di formazione.
Come afferma Jeff L. Rosenheim, curatore della mostra, queste immagini hanno gettato le basi per un linguaggio visivo che, nonostante la sua evoluzione, continua a risuonare ancora oggi: la fotografia come scrittura, come metodo, come costruzione sistemica del reale: "Non possiamo essere alfabetizzati nel mondo di oggi se non sappiamo come creare, condividere e interpretare le immagini".
Le storie che la macchina fotografica raccontava sugli Stati Uniti e sulla sua gente, sostiene Rosenheim, "entravano nella loro coscienza in un modo che nessun dipinto, scultura o altra forma d'arte è mai riuscito a fare". La maggior parte delle immagini in mostra non è mai stata pubblicata e offre nuovi spunti sul ruolo della fotografia delle origini nella formazione dell'America. Questo, afferma Rosenheim, si è rivelato istruttivo: "Più pubblichiamo informazioni sconosciute, più impariamo sulla nostra storia".