Cultura

Pasqua, i riti della Settimana Santa, l’anima popolare del sacro: tra fede, tradizione e identità

Barbara Bizzarri
 
Pasqua, i riti della Settimana Santa, l’anima popolare del sacro: tra fede, tradizione e identità

''Non c’è pietà più potente di quella che si fa carne, sangue e silenzio, nel corpo dei fedeli che camminano nel mistero della Passione'', scrisse nel 1959 Ernesto De Martino ne ''La terra del rimorso''.
È il rimorso di aver ucciso un innocente, il vero agnello del sacrificio, a guidare i riti più cruenti della Settimana Santa, culmine del calendario liturgico cristiano, che rappresenta per l'Italia un patrimonio di spiritualità vissuta, incarnata nelle tradizioni che, da nord a sud, trasformano borghi e città in scenografie corali del dolore e della redenzione.

Pasqua, i riti della Settimana Santa, l’anima popolare del sacro: tra fede, tradizione e identità

Dalla Domenica delle Palme fino alla Pasqua, si susseguono celebrazioni liturgiche e manifestazioni popolari in cui la devozione religiosa si intreccia a un linguaggio simbolico carico di pathos, eredità di secoli di storia e identità condivisa. In molte località, la Passione di Cristo non è soltanto commemorata: è rivissuta attraverso forme di pietà popolare che travalicano il rito, diventando rappresentazione collettiva, memoria personificata, gesto antropologico.

Tra i riti più intensi e discussi c’è quello dei Vattienti di Nocera Terinese, in Calabria.
Il Sabato Santo, uomini vestiti di nero, con il capo cinto da una corona di spine e a gambe nude si flagellano le cosce con il cardo, un disco di sughero irto di vetri, fino a farne scaturire sangue. Il rito, che ha suscitato negli anni dibattiti tra chi lo considera una forma anacronistica di automortificazione e chi lo difende come atto di fede profonda, affonda le radici in antichissimi rituali penitenziali.

I Vattienti si muovono per le strade legati a un Acci'om, l'Ecce Homo, spesso un bambino a rappresentarne la purezza, e la loro sofferenza volontaria diventa metafora tangibile della Passione, testimoniando un legame ancora vitale con la dimensione sacrificale del Venerdì Santo.

Ma la Calabria non è un caso isolato. In Puglia, la città di Taranto vive la Settimana Santa in un’atmosfera di struggente lentezza, con le processioni dell’Addolorata e dei Misteri. I Perdoni, confratelli incappucciati che camminano a piedi nudi per le strade della città vecchia, avanzano a passo lentissimo, in coppia, cullando statue tra canti e preghiere, in una meditazione pubblica e silenziosa sulla sofferenza.

A Trapani, in Sicilia, la processione dei Misteri, una delle più lunghe d’Europa, accompagna venti gruppi statuari, portati a spalla per oltre venti ore consecutive, raccontando in modo plastico e teatrale le tappe della Passione. Ogni gruppo è affidato a una maestranza: falegnami, pescatori, calzolai, panettieri, mestieri antichi che richiamano quelli degli Apostoli. Così il lavoro, la vita quotidiana, si fonde con il racconto sacro, trasformandosi in preghiera collettiva e corale.

A Sessa Aurunca, in Campania, i fujenti, devoti della Madonna dell’Arco, percorrono a piedi nudi chilometri tra le urla dei fedeli e il suono assordante dei tamburi, offrendo la loro fatica come atto di devozione e richiesta di grazia. A Chieti, in Abruzzo, si svolge una delle più antiche processioni d’Italia, quella del Venerdì Santo, accompagnata dal Miserere di Selecchy, una composizione del Settecento eseguita dal vivo da centinaia di musicisti e coristi che trasformano le strade del centro in un’opera liturgica a cielo aperto.

Il senso profondo di questi riti non vive solo nella drammaticità delle azioni o nella spettacolarità delle messe in scena. È nella loro capacità di trasformare lo spazio urbano in un teatro del sacro, di coinvolgere comunità intere in una narrazione che è al tempo stesso religiosa, storica, identitaria. In molti casi, le confraternite che custodiscono questi riti sono attive da secoli, con regole, costumi, canti e ritualità che si tramandano di generazione in generazione, spesso senza l’ausilio della scrittura ma con la forza del vissuto.

La modernità ha imposto riletture e talvolta restrizioni, soprattutto nei riti più estremi, ma non ne ha cancellato il valore. La ripetizione annuale di questi gesti conserva un valore antropologico e culturale che travalica la semplice liturgia: unisce passato e presente, il corpo e lo spirito, l’individuo e la collettività nei giorni in cui la religione si fa corpo e sangue, dolore e speranza, pubblico e intimo. Un patrimonio vivo, che sfida il tempo e continua a raccontare, in mille lingue locali, il mistero della Pasqua.

Negli ultimi decenni, anche i riti della Settimana Santa hanno conosciuto trasformazioni significative, dettate da dinamiche sociali, cambiamenti culturali, regolamenti ecclesiastici e nuove sensibilità etiche. La secolarizzazione diffusa, il calo delle vocazioni religiose, l’urbanizzazione e la crescente mobilità della popolazione hanno progressivamente modificato il tessuto umano e partecipativo che alimentava questi eventi.
Alcuni fra essi, un tempo spontanei e integralmente legati al ritmo della vita contadina, hanno dovuto essere regolamentati, talvolta contenuti nella loro dimensione più fisica e cruenta.

È il caso, ad esempio, proprio della pratica dei Vattienti, oggetto di ripetuti tentativi di limitazione da parte delle autorità sanitarie e religiose, pur nel rispetto della libertà di espressione religiosa e culturale.
Al tempo stesso, molte comunità hanno scelto di affiancare al gesto tradizionale nuove forme narrative, come rappresentazioni teatrali della Passione, produzioni video, cammini meditativi o itinerari di turismo religioso.

Le confraternite, pur rimanendo ancorate a un modello devozionale secolare, si sono aperte a processi di rinnovamento, coinvolgendo nuove generazioni, accogliendo la partecipazione femminile in ruoli un tempo riservati agli uomini, e riscoprendo il valore della trasmissione educativa dei simboli. Anche il linguaggio stesso dei riti è mutato: meno centrato sulla punizione e la colpa, più attento ai temi della misericordia, della cura, della memoria condivisa.

La riscoperta del valore culturale delle Settimane Sante ha infine attirato l’attenzione di studiosi, antropologi, registi, musicologi. L’Unesco ha avviato negli ultimi anni un processo di ricognizione per il riconoscimento di alcuni di questi riti come patrimonio culturale immateriale dell’umanità. In molte regioni, enti locali e diocesi collaborano affinché siano valorizzati anche come attrattori turistici, racconti vivi di un’Italia minore ma profondamente autentica, dove il senso del sacro continua a passare per le strade, tra le pietre, nella voce dei confratelli, nel passo scalzo, nei canti intonati nel buio.

Se la modernità ha imposto cambiamenti, non ha interrotto il flusso di significato. La Pasqua popolare italiana resiste, evolve, e continua a raccontare con antiche parole e nuove forme, il desiderio eterno dell’uomo di partecipare, anche fisicamente, al mistero del dolore che salva.

Le prime attestazioni liturgiche del Triduo pasquale risalgono al Sacramentarium Gelasianum (VI secolo), mentre il Liber Pontificalis documenta già in epoca carolingia l’organizzazione di processioni penitenziali a Roma. Nel mondo bizantino, i racconti apocrifi e le omelie di autori come Melitone di Sardi e Efrem il Siro alimentavano una religiosità popolare che trovava espressione anche in pratiche devozionali parallele alla liturgia ufficiale.

Nel Medioevo latino, la Passione di Cristo divenne un fulcro della pietà pubblica e privata, alimentata dalla predicazione francescana e domenicana. A partire dal XIII secolo si moltiplicano in Italia le confraternite laicali, che oltre a svolgere funzioni caritative, davano vita a rappresentazioni sacre come le Laude drammatiche e le processioni penitenziali. Le fonti notarili e confraternali, conservate in archivi comunali e diocesani, tra cui quelli di Palermo, Taranto, Enna, Chieti e Savona, mostrano come già nel XIV e XV secolo si strutturassero percorsi processionali codificati, con ruoli precisi, abiti rituali e strumenti simbolici, talora tramandati di generazione in generazione.

A partire dal Concilio di Trento, la Chiesa cattolica iniziò a regolamentare più strettamente le manifestazioni popolari, distinguendo tra quelle che potevano veicolare una corretta dottrina e quelle potenzialmente esposte a deviazioni teologiche o eccessi emotivi. Tuttavia, molti riti sopravvissero in forme adattate: il caso dei ''Battenti'' o ''Flagellanti'' meridionali, come i Vattienti di Nocera Terinese, ha radici nei movimenti penitenziali del XIII secolo, ma si è consolidato nella tradizione post-tridentina, assumendo nel tempo un valore identitario comunitario.

Fonti locali del XVIII e XIX secolo, come i diari di parroci, relazioni vescovili o cronache municipali, documentano l’evoluzione dei riti sotto l’influenza delle missioni popolari, dei sinodi diocesani e dei cambiamenti politici come l’età napoleonica o l’Unità d’Italia. Alcune confraternite furono soppresse, altre sono sopravvissute grazie al radicamento nel tessuto sociale. In età contemporanea, studiosi come Ernesto De Martino, Giuseppe Pitrè e Paolo Toschi hanno fornito descrizioni fondamentali per la comprensione etnoantropologica delle Settimane Sante italiane, aprendo la strada a successive ricerche sul campo, oggi continuate da Università, Soprintendenze e Centri di documentazione.

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