Pasqua, nella sua forma più antica, è già nel nome: “Pesach” in ebraico significa passaggio, ed è proprio da lì che nasce il senso più profondo di questa ricorrenza. Prima che fosse cristiana, la Pasqua è ebraica: celebra la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù d’Egitto, raccontata nel libro dell’Esodo, il passaggio del Mar Rosso, l’inizio di un cammino verso la libertà.
Pasqua, la festa del passaggio: un ponte tra memoria e rinascita
Nel calendario ebraico, Pesach è memoria viva. Ogni anno, attorno alla tavola del Seder, le famiglie ebraiche rievocano non solo un evento storico, ma un’idea di liberazione che si rinnova nel presente: la possibilità di uscire da ciò che opprime, individualmente e collettivamente. È la festa della soglia superata, del cammino ritrovato, della promessa che ancora guida.
La Pasqua cristiana si innesta su questa radice, la raccoglie e la trasfigura. Anche qui, il centro è un passaggio: dalla morte alla vita, dalla croce al sepolcro vuoto, dalla disperazione alla speranza. Il Cristo risorto diventa segno di una libertà più radicale, quella interiore, che parla al cuore dell’uomo in ogni epoca. Due passaggi che restano profondamente legati, non solo per prossimità di calendario, ma per la struttura simbolica comune: entrambe raccontano una liberazione, entrambe chiedono di fare un passo nella fede.
La resurrezione, nucleo della fede cristiana, non è solo un fatto dogmatico: è un'immagine archetipica, una narrazione che ha attraversato epoche e coscienze, carica di un messaggio universale. L’idea che da una morte, fisica, spirituale, storica, possa germogliare una nuova vita. Che ciò che sembra finito possa ricominciare. Che il tempo, anche quando pare sospeso, conservi una possibilità di riscatto.
In questo senso, la Pasqua conserva una sua attualità profonda. Non è un semplice momento liturgico per chi crede, ma una meditazione collettiva sul senso della prova, del dolore, del cambiamento. In una società spesso affaticata, frammentata, in cerca di nuovi linguaggi per dare nome all’essere, la Pasqua invita a un tempo altro. Alla lentezza della riflessione, alla profondità dell’interiorità, all’ascolto del mistero.
I suoi valori, speranza, perdono, rinascita, condivisione, parlano anche a un mondo secolarizzato. Sono parole che corrono sul filo del tempo e oggi, nella confusione semantica del presente, riacquistano forza. Speranza non come ottimismo ingenuo, ma come scelta di resistenza. Perdono non come debolezza, ma come rottura del ciclo della vendetta. Condivisione non come beneficenza, ma come riconoscimento dell’altro.
Pasqua è anche un tempo estetico, carico di simboli potenti: il sepolcro vuoto, il silenzio del sabato, la luce dell’alba. Il gesto di Maria che corre al mattino e non trova il corpo.
I discepoli che dubitano, poi comprendono. La bellezza di una narrazione che, anche per chi non vi aderisce religiosamente, continua a interpellare l’umano. Perché è una storia che riguarda tutti: inizia con un tradimento, parla di fallimento e rinascita, di paura e coraggio, di solitudine e comunione e termina scintillando di un trionfo assoluto.
Nel Vangelo, l’Ultima Cena di Gesù è proprio un Seder pasquale. Gesù, ebreo, celebra Pesach con i suoi discepoli. Ma in quella notte, le parole assumono un nuovo significato: il pane spezzato e il vino versato diventano corpo e sangue, offerta e alleanza. È il momento in cui la narrazione si sdoppia: da una parte resta la memoria della fuga dall’Egitto, dall’altra nasce la Pasqua cristiana, come compimento e rinnovamento.
Nel tempo, le due festività hanno preso strade diverse, eppure il cuore simbolico è sorprendentemente vicino. Pesach ricorda che l’uomo può uscire dalla schiavitù e diventare libero. La Pasqua cristiana afferma che la morte non è l’ultima parola, e che la vita può sempre ricominciare. Entrambe sono feste della speranza, del coraggio di alzarsi e andare, dell’idea che ciò che sembra finito può trovare un nuovo modo di essere.
In una società che spesso ha smarrito il senso del tempo simbolico, il messaggio di queste due tradizioni millenarie torna con forza. Parlano di transizione, di cammino, di memoria che illumina il presente. E lo fanno attraverso il linguaggio del rito, del racconto, della comunità. Non impongono verità, ma offrono senso.
Oggi viviamo un’epoca fatta di soglie, ambientali, geopolitiche, spirituali: Pasqua, quella cattolica e il passaggio, pesach, dell’Ebraismo, ricordano che il passaggio è possibile, ma va preparato, attraversato, condiviso. Serve fiducia, serve fatica. Ma oltre il deserto, c’è la terra promessa. Oltre la notte, l’alba. E forse proprio qui, in questa tensione tra l’antico e l’attuale, tra il sacro e l’umano, la Pasqua conserva la sua potenza: una festa che chiede di essere vissuta, più che solo celebrata.
Ed è così che la Pasqua cattolica diventa anche una proposta culturale: riscoprire la profondità come antidoto alla superficialità, la memoria come argine alla smemoratezza, il rito come luogo di senso in una modernità troppo spesso disorientata. Non è solo una festa, è una domanda aperta. E, come tutte le domande vere, non pretende una risposta immediata.