Ogni volta che, ad urne chiuse, spoglio completato e risultati ormai ufficiali, ci si ritrova da spettatori ad assistere al teatro (o teatrino, in molti casi) della politica si è costretti a chiedersi che male abbiamo fatto, da italiani, per meritare tutto questo.
Regionali: alla fine hanno vinto tutti, anche quelli che hanno perso
E il ''questo'' è il fatto che anche le sconfitte più clamorose, con una spericolata manipolazione della realtà fattuale, diventano quasi vittorie, come se i numeri fossero plastilina, di forma indefinita, ma sempre funzionale a qualcosa - un progetto - o qualcuno - più spesso -.
Le elezioni regionali in Veneto, Campania e Puglia non si sono sottratte a questo destino, anche se il loro esito è stato inequivocabile, segnando, da una parte, il settore dei vincitori, e dall'altra, quello degli sconfitti, lasciando in mezzo quelli che, come nelle feste in casa di un tempo, se ci sono o no, non se ne accorge nessuno.
Prendete il Veneto.
L'affermazione della Lega è stata netta, doppiando Fratelli d'Italia e, quindi, ridimensionando il partito leader della coalizione nazionale. Ma è stato un successo che ben difficilmente può essere attribuito ad un rinnovato potere attrattivo del partito, ma ad un singolo, Luca Zaia, che, incassando personalmente 200 mila voti e più, ha riaffermato il suo ruolo di elemento trainante della Lega.
Quindi: la Lega ha vinto, ma Zaia ha vinto ancora di più, ridimensionando l'entusiasmo di Matteo Salvini, che ora può tirare il fiato per un po', risedendosi al tavolo dell'alleanza di governo con qualche certezza in più.
E, come sempre, se c'è chi stappa il prosecco (non champagne o spumante, per rispetto alla regione), qualcun altro deve cominciare a rivedere le sue strategie. Perché il risultato del Veneto, se poteva anche essere nell'aria, ha ricondotto in un alveo di ''normalità'' Fratelli d'Italia, in cui forse più d'uno aveva pensato che ogni elezione sarebbe stato il trionfo personale di Giorgia Meloni e del suo partito.
La politica vera, non quella che si fa in televisione abbaiando, non è una scienza esatta e quindi ci può anche stare che i risultati non siano quelli sperati. Ma qui la botta in termini mediatici è stata forte, perché Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia ora si trovano davanti ad un bivio, guardando alle politiche del 2027: restare con l'attuale sistema o pensare a qualcosa di diverso, per consentire al presidente del consiglio quel cambio di domicilio (da palazzo Chigi al Quirinale) che lei nega con fermezza, ma che sembra essere la naturale conclusione della fase ascendente della sua parabola politica.
Ma il Veneto è lontano da Puglia e Campania, dove il centrodestra è stato bastonato, ma anche qui l'analisi del voto e delle sue dinamiche merita di essere approfondita.
In Puglia Antonio Decaro ha stravinto in virtù del suo prestigio personale (europarlamentare in carica, con una valanghe di preferenze, e rimpianto ex sindaco di Bari) , ma anche per il coraggio delle scelte, quando ha accettato di candidarsi a patto che né Michele Emiliano, presidente uscente, né Nicola Vendola, padre storico della Sinistra di Fratoianni lo facessero.
Emiliano ha accettato (forse convinto da una candidatura per il 2027 alle politiche), Vendola no e alla fine Nicky è rimasto al palo, penalizzato dalla legge elettorale.
Scenario diverso in Campania dove la vittoria di Roberto Fico è figlia del ''campo largo'', che ha messo dentro tutti quelli che non sono di centro-destra, una sorte di ''tutti a bordo'' che alla fine è stato vincente. E per fortuna che questa formula è stata identificata come l'unica in grado di confermare la guida a sinistra della Regione, dopo il ''regno'' di Vincenzo De Luca, del quale, confessiamo, ci mancheranno i siparietti social in cui dispensava lodi (a sé stesso) e staffilate (agli avversari, a partire da quelli del Pd, ufficialmente il suo partito).
Roberto Fico ha vinto e quindi ''viva Fico'', ma pensare che il suo sia un successo personale (o come sta facendo Giuseppe Conte, cercando di accreditarlo alla capacità attrattiva dei Cinque Stelle e quindi suo) è un modo di cercare di scansare l'evidenza che il prossimo presidente non è un personaggio capace di affascinare le folle.
Non è da lui, né crediamo che lui stesso pensi questo di sé. Da presidente della Camera ha fatto il suo, senza infamia o lode, ma da qui ad elevarlo a simbolo vincente dell'alleanza ce ne corre. Questo oggi, ma, siccome il destino è spesso imperscrutabile, può darsi che sotto la camicia da travet ci sia la tutina rosso-azzurra di Superman.