Burning Buzz

Sbandamento di-vino

Barbara Leone
 

Ah, bei tempi, quando le chiese brulicavano di fedeli e tutti, con devota attenzione, fissavano il parroco mentre parlava, ammoniva, spiegava con sapienza. E poi, con gesto solenne e ieratico, distribuendo le sacre ostie, concedeva ai presenti il privilegio di udire quel sussurro carico di significato, quel “Corpus Christi” che suggellava l’unione profonda tra l’uomo e il Figlio di Dio, incarnatosi per la salvezza dell’umanità.

Sbandamento di-vino

Bei tempi, in cui bastava varcare la soglia della canonica per trovare risposte a ogni dilemma. Poiché lui, il ministro dell’Altissimo, era sommo elargitore di saggi consigli, non soltanto su questioni attinenti il metafisico e l'ultraterreno, ma altresì sulle più profane ambasce: se la vita coniugale si incrinava, se il vicino di casa risultava molesto e ci si dibatteva tra l’idea di affrontarlo, denunciarlo o rimettere la questione alla saggezza del prete; se sorgevano dubbi sulle amicizie, se si ambiva a un posto nel comitato della festa patronale.

Bei tempi, che oramai appartengono al passato. Perché oggi, tra le molte competenze che sembrano gravare sulle spalle di un sacerdote, si potrebbe persino annoverare quella di intenditore di vini e liquori. Non un raffinato sommelier, certo, ma qualcuno in grado di discernere se un Valpolicella si sposi meglio con uno stufato rispetto a un rosé dalle morbide sfumature. Un prete che, magari, sappia anche illustrare le differenze tra un whisky torbato e un bourbon dal gusto rotondo. Con un’unica, piccola, ma insidiosa implicazione: ché per elargire consigli con sicura perizia, giova talora sottoporsi a empirica sperimentazione.

Così accade che qualche giorno fa un sacerdote irpino, dopo un’accurata ricognizione – e chissà se su un Fiano dall’aurea trasparenza o su un Taurasi dallo sguardo rubicondo – abbia decisamente ecceduto in temerarietà. Non già nella dotta esegesi della lettera di San Paolo ai Corinzi, ma, ahinoi (anzi, ahilui!), nella valutazione di un’etichetta con esiti d’imprevedibile licenza. Il risultato? Un tasso alcolico degno di un simposio dionisiaco e un incidente stradale dalle conseguenze gravi: un giovane trentenne, ignaro dell'imminente calamità, è rimasto gravemente ferito quando la vettura condotta dal religioso ha improvvisamente invaso la corsia opposta, travolgendo la sua auto con impeto non esattamente evangelico.

A rendere il tutto ancor più pittoresco, il fatto che il suddetto pastore d’anime fosse al volante d’una impetuosa Alfa Romeo, simbolo di una certa spregiudicatezza motoria e, forse, anche esistenziale. Insomma, non proprio il classico Pandino arrugginito da curato del villaggio di balzachiana memoria. Un dettaglio che aggiunge un tocco di narrazione epica all’evento: una sorta di moderna corsa delle bighe, purtroppo conclusasi senza gloria e con l’inevitabile intervento dei soccorsi del 118 e dei carabinieri che, con zelo inquisitorio degno di Torquemada, hanno sottoposto il religioso all’inesorabile giudizio dell’alcol test.

Il verdetto è inappellabile, con un valore talmente elevato da poter trasformare l’acqua in vino solo con un soffio. Per il povero parroco, è una disfatta su tutti i fronti: patente ritirata con la solerzia con cui si revoca una scomunica in extremis, denuncia per lesioni personali e, come se non bastasse, il mesto sequestro dell’amata Alfa Romeo sacrificata sull’altare della giustizia stradale. Un duro colpo per l’ecclesiastico, che da lì a poco avrebbe dovuto affrontare il vero Armageddon: la convocazione d’urgenza da parte del suo superiore, il severissimo monsignor Arturo Aiello il quale, con la gravità di chi ha il dovere di amministrare tanto le anime quanto la disciplina, ha preso in mano la situazione con la fermezza di un antico pontefice nel bel mezzo di un Concilio.

E così, senza possibilità di appello né arringhe difensive, il nostro sacerdote è stato sospeso dalle sue funzioni e inviato, con modalità che ricordano più un esilio dorato che una punizione canonica, in una comunità terapeutica per una full immersion di redenzione, purificazione e, soprattutto, sobrietà. Una pena esemplare, forse persino eccessiva se si considera che, con le attuali normative, basta un calice in più durante una messa particolarmente ispirata per risultare positivi all’alcol test. Ma tant’è: il clamore della vicenda è stato tale da non lasciare scampo al povero sacerdote, che si è ritrovato più bersagliato delle tesi di Lutero inchiodate sul portale di una cattedrale.

Che poi, diciamolo, non è certo il primo (né sarà l’ultimo) uomo di Chiesa a coltivare una sincera passione per il nettare degli dèi. Lungi dall’essere un vizio recente, il connubio tra religione e vino affonda le sue radici in epoche lontane: basti pensare ai monaci benedettini, veri e propri alchimisti del vino, o ai più moderni ecclesiastici dalla predicazione ispirata. Indimenticabile, a tal proposito, resta l’omelia pronunciata da un sacerdote di Borgotrebbia, in provincia di Piacenza, che qualche anno fa, dall’alto del pulpito e con l’entusiasmo di un Bacco redivivo, arringò i fedeli con parole che avrebbero meritato d’essere scolpite nel marmo: “Vi esorto, fratelli, a mangiare bene, a mangiare tutto e a bere con abbondanza! Ma non la Coca-Cola! Vino buono, perché il vino è segno della vita eterna. In paradiso, gli astemi non potranno entrare, perché lassù si beve il vino!”.
Vinsanto, ça va sans dire!

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