Attualità

Pasqua - Non in nome di Dio. Non in nome mio

Barbara Leone
 
Pasqua - Non in nome di Dio. Non in nome mio

C'è un silenzio che urla, un dolore che non ha voce, ma che si insinua sottopelle, come una colpa che non si può lavare. È il pianto sommesso degli agnelli, che nessuno ascolta. La loro è una via crucis invisibile, un calvario che si compie ogni anno sotto gli occhi distratti di chi chiama "tradizione" ciò che, a ben guardare, è un rituale di sangue.

Pasqua - Non in nome di Dio. Non in nome mio

Li vedi, nei primi giorni di aprile, bianchi e leggeri come fiocchi di neve scampati all’inverno. Giocano nei prati, rincorrono le madri con zampette incerte, emettono quei suoni teneri che sembrano un sospiro di vita appena nata.
Ti si stringe il cuore a guardarli, eppure...

Pochi giorni dopo, quel cuore si trasforma in pancia o gola che dir si voglia. E l’agnello, diventato "abbacchio", arriva fumante in tavola, glorificato con patate e rosmarino.
"Che Pasqua sarebbe senza agnello?", si dice. E nessuno si chiede: "Che razza di resurrezione è, quella che passa per la morte di un cucciolo?".

Ogni anno, solo per le festività pasquali, in Italia vengono uccisi quattrocentomila agnelli. Quattrocentomila esseri viventi, strappati alle loro madri quando ancora non sanno distinguere il giorno dalla notte.
Cuccioli che non hanno mai conosciuto l'estate, la pioggia leggera di maggio, il sole caldo di giugno. Vite interrotte con la brutalità di un colpo secco, sgozzate in mattatoi dove la pietà non trova cittadinanza. Il loro martirio comincia all’alba, quando vengono caricati nei camion.

Uno sull’altro, pressati come carne già pronta. Le zampe che scivolano sul metallo, gli occhi pieni di terrore. Non hanno acqua. Non hanno aria. Non hanno una madre a consolarli. Hanno solo paura. Una paura che conosce il destino. Perché sì, lo sanno. Lo sentono. Gli animali non sono stupidi: avvertono il panico dei compagni, leggono la morte negli odori, nelle vibrazioni, nei gesti degli uomini.

Li prendono per una zampa, li appendono a testa in giù. A volte dimenticano perfino di stordirli. Per fretta, per negligenza, per indifferenza. Così l’agnellino resta vigile, cosciente. Vede tutto, sente tutto: il ruggito delle lame, i belati strazianti dei fratelli, le urla dei condannati. Poi la gola viene tagliata, e il sangue comincia a scorrere. Lento, interminabile. Muore dissanguato, tra spasmi e grida, in un’agonia che non si può raccontare.
Se i macelli avessero le pareti di vetro – scriveva Tolstoj – saremmo tutti vegetariani. Ma i muri sono spessi, le coscienze anestetizzate. E a tavola si brinda, si ride, si scambiano auguri.

"Signore, sono un piccolo agnello, nato da un sogno della Tua creazione", scriveva Mario Canciani, un sacerdote che amava gli animali e ne difendeva il diritto a esistere, a vivere.
In quella poesia – "La preghiera dell’agnello" – non c’è solo spiritualità, c’è una preghiera laica, un grido accorato che dovrebbe far tremare le mani di chi, con leggerezza, impugna il coltello o la forchetta. Perché è un ossimoro crudele, una bestemmia travestita da rito: celebrare la vita con la morte. Rallegrarsi della resurrezione del Cristo, e nel frattempo assassinare agnelli, simbolo stesso di Gesù.

Che senso ha?
Che senso ha invocare pace e misericordia mentre si perpetua una carneficina di creature che non hanno fatto nulla se non nascere? Io non lo so. Ma so che ogni volta che sento un agnello belare, penso a Lui. A quel Dio che, se davvero si è fatto carne, se davvero è stato “Agnello di Dio”, non può che piangere con loro. E forse, chissà, era vegetariano davvero. Forse predicava l’amore non solo tra gli uomini, ma tra tutte le creature. Perché “ama il prossimo tuo” non prevede nota a piè di pagina: non specifica la specie, la taglia, il tipo di sangue. Che poi, se vogliamo proprio dirla tutta, neanche cristiana è, questa abitudine.

Lo ha spiegato persino Benedetto XVI, nel 2007: l’immolazione dell’agnello è un gesto nostalgico, inefficace. Una reliquia di un tempo che dovrebbe essere superato. Eppure resiste. E resiste con rabbia, con sarcasmo, con indifferenza. Con i social che traboccano di commenti livorosi ogni volta che qualcuno osa chiedere pietà.

"E allora la bistecca?", "E allora il salame?". E allora niente. Allora siete voi, che non volete vedere. Perché vedere significherebbe ammettere. E ammettere significherebbe cambiare. Ma cambiare fa paura.
Non nutro grandi speranze.

Ma oggi, Venerdì Santo, sento il dovere di scrivere. Perché oggi è il giorno del dolore, della croce, del sacrificio. E mentre in chiesa si canta il “Popolo mio, che male ti ho fatto?”, fuori dai templi, nei macelli, un coro di agnellini implora pietà, ma nessuno li ascolta. Ecco perché non chiamatela Pasqua. Chiamatela con il suo vero nome. Chiamatela mattanza.

  • villa mafalda 300x600
  • PP evolution boost estivo giugno 2024
Rimani sempre aggiornato sulle notizie di tuo interesse iscrivendoti alla nostra Newsletter
Notizie dello stesso argomento
Pasqua, uova di cioccolato: un’antica storia di rinascita e magari anche di riciclo
19/04/2025
Barbara Leone
Pasqua, uova di cioccolato: un’antica storia di rinascita e magari anche di riciclo
Pasqua: undici milioni di italiani in viaggio
18/04/2025
Redazione
Sono oltre 11 milioni gli italiani che, secondo Federalberghi, si concederanno una pausa d...
Pasqua - Non in nome di Dio. Non in nome mio
18/04/2025
Barbara Leone
Ogni anno, solo per le festività pasquali, in Italia vengono uccisi quattrocentomila agnel...
Finalmente stop alle truffe telefoniche: arrivano i filtri anti-spoofing
17/04/2025
di Barbara Leone
Finalmente stop alle truffe telefoniche: arrivano i filtri "anti-spoofing"