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Morto Papa Francesco: ‘’Una Chiesa povera e per i poveri’’, questa la sua eredità più viva

Barbara Leone
 
Morto Papa Francesco:  ‘’Una Chiesa povera e per i poveri’’, questa la sua eredità più viva

Con Papa Francesco se ne va un pastore che ha saputo incarnare come pochi il Vangelo nella sua nudità più autentica: quella della povertà, della misericordia, dell’umiltà che si china, dell’amore che si fa carne nelle ferite degli ultimi.

Morto Papa Francesco:  ‘’Una Chiesa povera e per i poveri’’, questa la sua eredità più viva

Ma ciò che resta, ora più che mai, è la radicalità del suo messaggio: la Chiesa deve spogliarsi per ritrovare se stessa, deve farsi povera per tornare al Cristo dei Vangeli. Quando, il 13 marzo 2013, Jorge Mario Bergoglio si affacciò dalla Loggia delle Benedizioni a San Pietro, il mondo si interrogava su quel nome scelto a sorpresa: Francesco. Un nome mai usato da nessun pontefice prima.

Un nome che non era solo un omaggio, ma una direzione, un programma, un'urgenza. “Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!” aveva detto pochi giorni dopo incontrando i rappresentanti dei media. Da quel momento, quelle parole si sono fatte carne.

E la sua Chiesa ha iniziato a camminare in sandali consumati, con il bastone dei pellegrini e lo sguardo rivolto agli ultimi. Perché Papa Francesco ha incarnato fin dal principio la consapevolezza che non si può capire il Vangelo senza comprenderne la povertà. “Non si può comprendere il Vangelo senza la povertà”, aveva detto in un’intervista a La Vanguardia nel 2014. E non si tratta solo di un'opzione etica, ma di una necessità teologica: perché è nel povero che Cristo si rivela, è nella carne piagata degli scartati che palpita il cuore del Vangelo. E lui, che veniva dalla “fine del mondo”, dai sobborghi di Buenos Aires dove i bambini giocano nel fango e i padri cercano pane e senso nelle periferie dell’anima, non ha mai dimenticato da dove veniva. Non ha mai smesso di guardare la Chiesa con gli occhi dei poveri.

Nel suo magistero, la povertà non è mai stata un tema accessorio. È stata la pietra angolare. “Il cristiano è uno che incontra i poveri, che li guarda negli occhi, che li tocca”, disse ad Assisi nel 2013, abbracciando i senzatetto assistiti dalla Caritas. Parole che non volevano essere slogan, ma gesti concreti: Francesco ha stretto a sé corpi malati, ha lavato i piedi a carcerati, ha pranzato con chi non ha una casa. In ogni volto segnato dal bisogno vedeva la carne stessa di Cristo. Il suo insegnamento è sempre stato chiaro: i poveri non sono destinatari della carità, ma soggetti attivi della fede. Non spettatori, ma protagonisti. “I poveri hanno molto da insegnarci”, ha scritto nell’Evangelii gaudium.

E ancora: “Dio concede loro la sua prima misericordia”.

Per lui, i poveri non erano una categoria sociologica, ma una realtà teologica. Erano, e sono, il cuore stesso della Chiesa. Per tutto il suo Pontificato, Francesco ha denunciato con forza la “carità presbite”, quella che guarda da lontano senza toccare, che si commuove senza compromettersi. Ha combattuto il clericalismo, l’autoreferenzialità, l’orgoglio di una Chiesa più preoccupata di piacere che di servire.

La tentazione del benessere spirituale, del benessere pastorale”, la chiamava. E avvertiva: una Chiesa che cerca riconoscimenti, potere, influenza, è destinata a diventare sterile. Una Chiesa che si fa ricca per i ricchi, o “di classe media per i benestanti”, perde il Vangelo lungo la strada. Nella sua visione profetica, la povertà della Chiesa non era una rinuncia, ma una forza. Perché, diceva, solo una Chiesa spoglia può parlare con autorità. Solo una Chiesa che serve, può essere credibile. Solo una Chiesa che piange con chi piange può annunciare la speranza. E le sue parole non erano astratte: erano intrise del sangue dei migranti morti nel Mediterraneo, del sudore dei lavoratori sfruttati, delle lacrime dei bambini affamati.

Eppure, Francesco non ha mai cercato il protagonismo. “Non è di protagonismo che i poveri hanno bisogno, ma di amore che sa nascondersi”, scrisse nel 2018.

Per lui, i veri protagonisti erano Dio e i poveri risvegliando in tal modo la memoria dei Padri della Chiesa: Basilio, Crisostomo, Ambrogio. Come loro, egli ha parlato della povertà come rivelazione, come via per incontrare Dio riportando la Chiesa al “protocollo” del giudizio finale: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero nudo e mi avete vestito”. Nessuna dottrina, nessuna strategia pastorale, nessun documento avrebbe mai contato quanto questo. Ecco perché Francesco lascia un’eredità bruciante. Non solo ai vescovi, ai sacerdoti, ai consacrati. Ma a ogni cristiano. A ogni uomo e donna di buona volontà. Il suo appello a stare “nelle periferie dell’esistenza”, a toccare le piaghe del mondo, a uscire da sé per entrare nell’altro, resta una chiamata che interpella ognuno. Resta una traccia, un sentiero, una possibilità. E ora che la sua voce si è spenta, risuona più forte che mai quella invocazione: “Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”: un desiderio che non si può archiviare. Un comandamento, che chiede di essere vissuto dai credenti di tutto il mondo che oggi lo piangono.

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