Sin dall’alba del suo pontificato, Bergoglio ha indicato una Chiesa «in uscita», capace di sporcare le mani nella carne ferita del mondo. E nessuna ferita è più profonda di quella inflitta dalla privazione della libertà. Per questo, il Papa ha varcato molte volte le soglie di quelle mura che dividono, che separano, che rinchiudono. Ma non lo ha fatto con la compassione di chi guarda dall’alto, bensì con la fratellanza di chi si siede accanto. Il carcere, per Francesco, è stato basilica. Una cattedrale del dolore e della speranza.“Perché loro e non io?”.
Morto Papa Francesco, essere accanto ai carcerati: così ha portato la Chiesa “fuori dal tempio”
Era questa la domanda che, raccontava spesso, lo accompagnava ogni volta che varcava la soglia di un penitenziario. Un interrogativo che disarma e che contiene tutta la visione di un pontificato che ha voluto rovesciare lo sguardo. Non giudicare, ma comprendere. Non condannare, ma risollevare. Non parlare di, ma con. E lo ha fatto fino all’ultimo. Fino a quando, lo scorso 17 aprile, ha voluto essere presente nel carcere romano di Regina Coeli per le celebrazioni del Giovedì Santo nonostante le precarie condizioni di salute.
Non ha potuto celebrare il rito della lavanda dei piedi, ma ha stretto le mani, incrociato gli sguardi, pronunciato benedizioni che più che parole erano abbracci. «Ogni volta che entro in un posto come questo mi domando: perché loro e non io?», ha detto. E nel silenzio raccolto di quel luogo di pena, è risuonata come una preghiera, una confessione, un manifesto.
Ma è stato il 26 dicembre del 2024 a segnare uno dei gesti più simbolici del suo Pontificato. A sorpresa, il giorno dopo Natale, Francesco ha aperto la Porta Santa non in una basilica romana, ma nel carcere di Rebibbia. Mai un Papa lo aveva fatto prima. Quel portone, chiuso su oltre 60mila detenuti, è diventato varco del sacro, feritoia di luce in una delle notti più lunghe dell’umanità.
«È un bel gesto quello di spalancare – ha detto in quell’occasione – ma più importante è quello che significa: è aprire il cuore. Cuori aperti. E questo fa la fratellanza». Spalancare, non semplicemente aprire: e qui la forza del verbo scelto racchiude tutto il senso della sua missione. Perché il carcere, per Francesco, non è mai stato solo un luogo di pena, ma una soglia da attraversare, un abisso da illuminare, un confine da riconciliare. E quel gesto, nella sua potenza profetica, ha detto a tutti noi che nessun luogo è escluso dalla misericordia, e che anche le porte più spesse possono diventare passaggi di redenzione.
Un messaggio potentissimo, da una frase evangelica, su cui Bergoglio ha costruito una delle opzioni del suo Pontificato: “Ero carcerato e mi avete visitato. E così, dal 2013 sino ad oggi, Francesco ha visitato quindici penitenziari, lavato i piedi a detenuti, donne e uomini, italiani e stranieri, condannati per ogni reato. È entrato a Regina Coeli, a Rebibbia, nella Giudecca, a Castrovillari, a Montorio, ha condiviso pasti, ascoltato storie, pianto. Perché, come diceva, “la realtà è superiore all’idea”. E la realtà, per Francesco, era fatta di corpi, di volti, di silenzi laceranti e mani tese. Così nel marzo del 2020, in piena pandemia, dalla cappella di Santa Marta, pronunciò parole che colpirono come lame: «Preghiamo per i nostri fratelli e sorelle che sono in carcere. Soffrono tanto per l’incertezza, per le loro famiglie lontane, per chi è malato. Siamo vicini a loro». E ancora: «Dove c’è sovraffollamento, c’è il rischio di una calamità».
Mentre il mondo chiudeva ogni porta, Francesco bussava a quelle dei dimenticati. Mentre nel carcere femminile di Rebibbia, nel giorno dell’apertura della Porta Santa, ha offerto un’immagine dirompente. «La speranza – ha detto – è come un’ancora lanciata verso la riva. E noi, aggrappati a quella corda, andiamo avanti. A volte la corda fa male alle mani, ma ci tiene saldi. La speranza è faccenda di mani e piedi». Non sentimentalismi, ma concretezza. Non una fiammella tremolante, ma una lotta, un cammino, una scelta quotidiana. Per questo, la sua predicazione non è mai stata astratta. Il carcere, per lui, è stato un luogo politico, sociale, umano. Non solo compassione, ma denuncia.
Come quando a Cassano all’Ionio, nel 2014, incontrando i detenuti e i familiari del piccolo Cocò, ucciso dalla ‘ndrangheta, tuonò: «I mafiosi sono scomunicati». Parole nette, senza sfumature, che riecheggiano una massima di Terenzio che sembra scritta a margine di ogni suo gesto: “Nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. E davvero, nulla lo è mai stato per lui. Quando ha chiamato “basilica” il carcere di Rebibbia, non ha semplicemente concesso dignità a un luogo di dolore: ha ridisegnato i confini del sacro. Ha detto, con un gesto che vale mille encicliche, che Cristo non abita solo tra ori e incensi, ma anche dietro le sbarre, nei luoghi dove la speranza arranca, dove il tempo pesa e la colpa brucia. Lo stesso messaggio vibrava nell’installazione “Con i miei occhi”, allestita nella prigione femminile della Giudecca durante la Biennale di Venezia: due piedi sporchi impressi su un muro, come a dire che Cristo è già dentro, e solo i piedi restano fuori. In quell’arte, Francesco ha riconosciuto il Vangelo. In quei volti segnati, ha visto la carne viva del Cristo crocifisso. «Aprire una Porta Santa in un carcere – spiegò a dicembre – significa dire che nessuno è escluso dalla grazia». E con la forza mite ma incrollabile dei suoi gesti, ha demolito l’idea che la giustizia debba essere solo castigo. «Occorre una giustizia riabilitativa», ripeteva: una giustizia che non schiacci, ma sollevi; che non umili, ma redima; che non soffochi la speranza, ma la riaccenda. E così, mentre il mondo spesso dimenticava chi vive dietro le sbarre, lui si faceva prossimo. Anno dopo anno, carcere dopo carcere, ha spalancato non solo porte, ma cuori. Ha riportato luce dove tutto sembrava perduto. Ha mostrato, con radicale semplicità, che la misericordia non è debolezza, ma rivoluzione. E in quella rivoluzione – silenziosa, ostinata, profonda – si è giocata la grandezza del suo Pontificato.