Quando un giovane medico comincia la professione, tra i riti di ''iniziazione'', c'è anche il giuramento di Ippocrate, che nei secoli è stato cambiato, ovviamente per adeguarsi ai tempi, ma che reca in sé il cuore della missione. Tra gli altri impegni che il nuovo medico assume c'è quello di ''perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica, il trattamento del dolore e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della dignità e libertà della persona cui con costante impegno scientifico, culturale e sociale ispirerò ogni mio atto professionale''.
Ora, letto questo, andate a dirlo ai congiunti di Giuseppe Barbaro, 76 anni, morto in un ospedale di Palermo (il Villa Sofia-Cervello) dove era stato ricoverato per una frattura ad una spalla, conseguenza di una caduta, e dove è rimasto per diciassette lunghissimi giorni senza che qualcuno ponesse fine al suo dolore.
Sanità, Palermo: muore in ospedale aspettando per 17 giorni d'essere operato
Che deve essere stato tanto (il racconto che la figlia ha fatto della permanenza in ospedale sembra uscire da un film dell'orrore) perché alla fine il quadro clinico generale era talmente compromesso che Barbaro ha cominciato a dare segni di squilibrio mentale. Se è vero che qualcuno è arrivato al punto di bloccargli mani e gambe con fascette di plastica, denuncia la famiglia, che ricorda come l'uomo non aveva alcuna patologia e che quindi, compatibilmente con l'età, godeva di ottima salute.
Basta solo il diario della degenza per comprendere l'enormità di quanto è accaduto.
Giuseppe Barbaro è stato portato a Villa Sofia il 21 dicembre e fino al 24, quando è stato portato nel reparto di ortopedia, è rimasto su una lettiga, in un corridoio. Nei giorni trascorsi sulla lettiga, hanno detto i familiari, precisando di avere avvertito il personale dell'ospedale, Barbaro, per la fasciatura alla parte sinistra del corpo, non poteva alimentarsi autonomamente. Cosa che gli ha creato seri problemi, tanto che, riferisce la figlia, ''sia il 22 che il 28 già manifestava segni di dissociazione e confusione mentale'', oltre al fatto di essere ''bloccato con fasce di plastica alle caviglie e al braccio destro''. L'uomo è stato slegato solo dopo le proteste della figlia. Ma intanto la condizione generale dell'uomo è andata peggiorando, con valori alterati e chiari segnali di polmonite bilaterale. Fino al 3 gennaio quando i medici hanno cominciato a parlare di una situazione grave, ipotizzando un esito letale, ma non tanto da disporne il trasferimento in terapia intensiva. Il 6 gennaio il decesso.
Il ''dopo'' è abbastanza scontato: la denuncia dei familiari di Giuseppe Barbaro, che reclamano giustizia; l'avvio di una indagine da parte della Procura di Palermo; l'ira del presidente della Regione Sicilia (che ha fatto un'ispezione a sorpresa al Villa Sofia, constatando la presenza di molti pazienti in attesa di interventi ortopedici); vertici e analisi dei tempi.
E su tutto aleggia un rimpallo di responsabilità, con l'ospedale che dice che ''il paziente non era nelle condizioni di essere sottoposto ad un intervento chirurgico, il quadro generale era grave a causa dell’infezione polmonare, un evento imprevisto e imprevedibile''.
Come si dice in questi casi, aspettiamo che la giustizia faccia il suo corso, ma per una volta mettiamoci nei panni di chi ha accompagnato il padre in ospedale per una normale frattura ad una spalla per vederselo restituito, morto, dopo 17 giorni trascorsi tra una lettiga, in corridoio, tra l'avere patito la fame non per sua colpa, tra un intervento diventato una chimera, fascette di plastica a bloccarlo, manco fosse un pazzo sanguinario e non un uomo che stava perdendo il contatto con la realtà per una condizione di cui era solo vittima.
Il caso di Palermo è, purtroppo, solo l'ultimo di una lunga sequenza di episodi in cui la sanità pubblica mostra gravissime falle nella risposta alle esigenza della gente.
Comprendiamo benissimo che il sistema paga decenni di sottovalutazione dei problemi, ma se quelli più antichi e consolidati (molti ospedale italiani sono allocati in edifici vecchi di secoli e resi agibili solo con interventi tampone) sono difficili da risolvere (il loro ammodernamento comporta finanziamenti che non possiamo permetterci), ce ne sono altri di più facile soluzione.
Ma questo passa per soldi che il Paese non ha, al di là del fatto che la maggioranza, ogni qualvolta ne ha l'occasione, sbandiera stanziamenti miliardari che, tanto per restare in materia, sono pannicelli caldi su una ferita aperta e sanguinante, se si guarda al fatto che sono spalmati in più anni.
Piuttosto che finanziare opere sulla cui utilità tanto si discute, forse sarebbe stato meglio indirizzare i fondi verso un obiettivo più importante, anche se di minore ritorno mediatico: la salute. Che in un Paese che invecchia inesorabilmente sarà il forno che, nei decenni a venire, brucerà tantissimo denaro.