La musica ti porta sempre altrove. Può essere il respiro di un'anima in volo, o la lama silenziosa di una condanna. Ad Auschwitz, la musica era entrambe le cose. Era il soffio di un'illusione, la fragile speranza di chi, stringendo un violino o un violoncello tra le mani, cercava di strappare alla morte un giorno ancora. Ma era anche lo strumento di un sadico inganno, la colonna sonora dell'orrore. Un paradosso crudele: la bellezza che si intreccia con la brutalità dell’annientamento. Un sottofondo straziante, che si disperdeva tra le baracche e i forni crematori, mentre il cielo restava indifferente a tanto dolore.
L'orchestra femminile di Auschwitz: il suono della memoria
Chiunque abbia visitato un campo di sterminio ne ha sentito il silenzio irreale, un'eco sospesa di grida mai sopite. Ma nei giorni della barbarie nazista, quel silenzio non esisteva. C'erano le urla, i comandi secchi in tedesco, il clangore di stivali sulla ghiaia. E poi c'era lei: la musica. Non un conforto, non un balsamo. Ma un'arma, il battito incessante di un destino crudele che scandiva ogni istante della giornata senza tregua.
La musica che accompagnava la spossante routine del lavoro forzato, risuonando nelle partenze all’alba e nei ritorni sfiniti al calar della sera. La musica che era presente negli appelli, nelle punizioni, nelle esecuzioni. Ai prigionieri veniva imposto di apprendere canti in tedesco da intonare in coro mentre, piegati dalla fatica, dal gelo e dalle ore interminabili, eseguivano lavori estenuanti.
Così, la musica si trasformava in catena, impedendo ogni comunicazione, ogni conforto, ogni ultimo anelito di umanità. Essa era parte integrante del perverso disegno di alienazione e annientamento, orchestrato con gelida precisione dai nazisti, tristemente famosi per la meticolosità che caratterizzava il loro macabro sadismo.
E così, per esempio, nel luglio del 1942, dopo un vano tentativo di fuga, il prigioniero polacco Hans Bonarewitz fu condotto al patibolo sulle note di Ich werde dich immer warten – "Aspetterò sempre il tuo ritorno" – trasformando la musica in un crudele scherno.
Tra le immagini più celebri ritrovate negli archivi nazisti, ve n’è una che immortala proprio quell’istante. Ugualmente straziante è il ricordo di alcuni prigionieri comunisti costretti a scavare la propria tomba intonando L’Internazionale, come un ultimo atto di sfida e di dolore. E questi sono solo alcuni degli innumerevoli esempi di un orrore senza voce, ma non senza suono.
Eppure, nell'abisso, la musica fu anche un'ancora. Saper suonare poteva significare la sopravvivenza. Come avvenne per Anita Lasker, giovane violoncellista ebrea, la cui storia non inizia nei recinti del lager, ma in una casa ricolma di arte e cultura. Nata a Breslavia, allora in Germania e oggi parte della Polonia con il nome di Wrocław, Anita crebbe in un ambiente colmo di bellezza. Sua madre Edith era una violinista di talento, suo padre Alfons un avvocato rispettato. Era la più giovane di tre sorelle, e fin da bambina seppe che il violoncello sarebbe stato il suo destino.
La sua famiglia era un simbolo dell'assimilazione ebraica: vivevano con serenità, nutrendosi di musica, letteratura e dibattiti. La loro casa era un rifugio, un'isola di civiltà in un mondo che stava scivolando nella barbarie. Eppure, fuori dalle pareti domestiche, l'ombra dell'odio si allungava sempre di più.
Anita ricordò anni dopo, in un documentario della BBC, il momento in cui tutto cambiò.
Un giorno, mentre frequentava la sua scuola privata, sentì un compagno di classe sibilare: "Non dare il cancellino all'ebreo". Quelle parole, incomprensibili per la sua innocenza, furono il primo graffio su un'infanzia felice. Nel 1938, la persecuzione divenne aperta violenza. La Kristallnacht incendiò la notte con vetri infranti e sinagoghe in fiamme.
I suoi genitori tentarono di proteggerla, instillando in lei e nelle sue sorelle l'amore per la cultura: "Questo nessuno potrà portarcelo via", ripetevano. Ma la realtà era ineluttabile. Nel 1942, l'ordine tanto temuto arrivò. I genitori di Anita dovettero presentarsi per la deportazione. Lei e sua sorella Renate li accompagnarono lungo le strade della città fino al punto stabilito. Un ultimo saluto. Un addio che si sarebbe trasformato in silenzio eterno.
Orfane, Anita e Renate tentarono la fuga. Con documenti falsi, si finsero lavoratrici francesi e si imbarcarono su un treno. Ma il destino le tradì. La Gestapo le arrestò, e Anita fu condannata a 18 mesi di prigione. Un inferno nel quale, paradossalmente, trovò una momentanea salvezza: "La prigione non è un posto piacevole, ma non è un campo di concentramento. Nessuno ti uccide in prigione".
Nel 1943, Auschwitz la inghiottì. Arrivò di notte, tra urla, latrati e un odore insopportabile. Fu rasata, tatuata, annientata nella sua individualità. Eppure, fu proprio una parola a cambiare il suo destino. "Suono il violoncello", disse a una prigioniera. Quella frase risuonò come una condanna capovolta.
La ragazza si precipitò a chiamare Alma Rosé, violinista e nipote di Gustav Mahler, ma soprattutto direttrice dell'Orchestra femminile del campo: un fragile baluardo contro la disperazione, un'isola di suoni nell’oceano del terrore. E così la musica, ancora una volta, divenne per Anita rifugio e prigione. Con strumenti rubati ai deportati, l'Orchestra suonava sempre. Suonava per i gerarchi, suonava per i prigionieri in marcia, suonava per i condannati a morte. Suonava instancabilmente, come un basso ostinato che sovrasta la morte.
Anita ricorda la tensione nei volti delle musiciste mentre si sforzavano di mantenere la perfezione richiesta, non tanto per soddisfare i loro aguzzini, ma per restare vive ancora un giorno.
In questo scenario surreale Alma Rosé, con la sua disciplina implacabile, non accettava esitazioni né errori: la musica doveva essere impeccabile. "Suonare era il nostro rifugio, la nostra fuga dall'orrore", raccontò Anita nel documentario del 1996. "Finché avevamo un arco in mano, finché le nostre dita sfioravano le corde, eravamo ancora umane". Nel 1944, la bacchetta di Alma si abbassò per sempre: morì di botulismo e con lei si spense l'Orchestra.
Poche settimane dopo, Auschwitz divenne silenzioso. Anita fu deportata a Bergen-Belsen, dove la morte non aveva bisogno di camere a gas: bastavano fame e malattia. La liberazione del campo da parte delle truppe britanniche, nell'aprile del 1945, arrivò in extremis: "Un'altra settimana e non ce l'avremmo fatta", confessò.
Dopo la guerra, Anita e Renate si riunirono con la sorella Marianne in Inghilterra. La vita trovò un modo per continuare, nonostante tutto.
Oggi, a 99 anni, Anita Lasker-Wallfisch è l'ultima sopravvissuta dell’Orchestra femminile di Auschwitz. Per decenni si è rifiutata di parlare tedesco in pubblico, giurando di non mettere mai più piede in Germania. Nel 2018, invitata al Bundestag di Berlino, ha deciso di rompere il silenzio parlando proprio dinanzi ai discendenti di coloro che avevano sterminato il suo popolo: "Come vedete, ho infranto il mio giuramento, molti, molti anni fa, e non ho rimpianti. È molto semplice: l'odio è veleno e, alla fine, avveleni te stesso". In un attimo tra le mura che un tempo furono testimoni della più spietata ideologia di ,morte, la voce di Anita Lasker-Wallfisch ha riecheggiato in tutta la sua forza e verità, dando vita ad un accordo.
Un accordo finale: un monito, una speranza. Una nota che, questa volta, non ha segnato la fine, ma un nuovo inizio.