FOTO (cropped): Dmitry Rozhkov - CC BY-SA 3.0
Il fuoco ha smesso di camminare con noi. E quella porta che aveva aperto su più mondi paralleli di possibilità infinite che si moltiplicavano a ogni sguardo si è chiusa per sempre. Ieri, in una Los Angeles bruciata, è morto David Lynch: un genio, un visionario. Quando su Canale 5 andò in onda la prima puntata di Twin Peaks, per noi che avevamo vent’anni, sembrò di fare un salto in un altro spazio tempo: entrati nel varco fra le cime gemelle nulla fu come prima, sullo schermo e fuori. Perfino Gorbaciov chiamò Bush per sapere chi avesse ucciso Laura Palmer, una ragazza bionda avvolta nella plastica sulle rive di un lago gelido in un mondo a parte in cui anche lui, il regista, volle entrare fra quelli che conducevano le indagini sulla morte di una reginetta di bellezza: il suo Gordon Cole è sordo, ma interpreta i simboli e sente una voce soltanto, quella della donna che ama.
David Lynch: addio a un genio
A chi gli chiedeva, nel 2017, alla Festa del Cinema di Roma quando fu premiato da Sorrentino, di dare spiegazioni sulla conclusione in 18 ore del sogno in cui viviamo tutti, lui rispose, Twin Peaks finisce come finisce. It ends the way it ends. È tutto lì, nessuno sa altro: né lei, disse rivolto all’intervistatore, né io. Dalle foto in cui ci osserva David Lynch a guardarlo avrebbe potuto essere e fare tutto: la dolcezza di un maestro di meditazione trascendentale, l’aura da rockstar, il mistero di chi ha una vita interiore intensa. Invece per fortuna ha raccontato la sua visione di più mondi paralleli, sconfinati, e senza di lui la tv e il cinema non sarebbero quelli che sono oggi.
Senza questo signore non ci sarebbero state serie come True Detective e nemmeno i vari Cohen e Tarantino, che narra in Pulp Fiction un universo parallelo, di fumetti e senza ombre. Uno dei film preferiti da Lynch era Otto e Mezzo, onirico, sognante, che si apre tra nuvole di vapori e con un uomo che vuole volare trattenuto a terra. E proprio come pochi grandi, come Fellini, Lynch si è meritato un aggettivo per definire i suoi modi e i suoi mondi: chi lo ha spiegato meglio di chiunque in due pagine da leggere è un altro genio, D.F. Wallace, con l’esempio dell’omicidio domestico: “Un tizio che uccide la moglie, in sé per sé, non è una cosa dal sapore particolarmente lynchiano ma se viene fuori che il tizio ha ucciso la moglie perché (…) si rifiutava di comprare una particolare marca di burro di arachidi a cui lui era affezionato” e se i poliziotti che lo trovano sul corpo mutilato della moglie “devono ammettere che il tizio ha le sue ragioni,” allora sì: “si potrebbe parlare di un omicidio che presenta tratti lynchiani”.
Spezza il cuore dire addio a un genio, rimpiangendo da egoisti quello che avrebbe potuto fare ancora, quali altri sipari avrebbe potuto sollevare per farci spiare all’interno, quando sarebbe tornato a prenderci per mano e condurci attraverso il bosco dell’ignoto e della conoscenza, fino ad arrivare sotto i sicomori. «Non so perché la gente si aspetti che l’arte abbia un senso, visto che accetta il fatto che la vita non ne abbia».