L'esito delle ormai prossime elezioni presidenziali Usa è destinato ad influenzare le operazioni e la redditività di alcune delle più grandi aziende del mondo. Per questo, negli ultimi mesi, i grandi gruppi industriali hanno riversato fiumi di denaro nei forzieri dei partiti statunitensi, un flusso di donazioni che offre agli investitori una prospettiva inedita sui settori che potrebbero trarre vantaggio dalla vittoria dell’uno o dell’altro schieramento.
Secondo Open Secrets, il ciclo elettorale in corso (incluse primarie, presidenziali ed elezioni per il Congresso) sarà il più costoso della storia americana, con una spesa totale stimata di almeno 15,9 miliardi di dollari (contro i 15,1 miliardi delle elezioni 2020). Per le sole presidenziali si prevede una spesa di oltre 5,5 miliardi di dollari.
Un ruolo decisivo è quello svolto dai Super PAC (Political Action Committees), organizzazioni create per sostenere un candidato o un'agenda politica, che agiscono indipendentemente dai comitati elettorali ufficiali e hanno capacità di spesa e ricezione di donazioni praticamente illimitate. A inizio ottobre, la spesa riconducibile ai Super PAC era pari a circa 2,6 miliardi di dollari, ben un miliardo in più rispetto allo stesso periodo del 2020, ma si calcola che la spesa finale potrebbe superare i 5 miliardi di dollari, con i repubblicani in netto vantaggio. In parallelo all’aumento della spesa dei Super PAC, cresce anche il peso dei “grandi donatori”: secondo Open Secrets i primi 10 donatori individuali hanno contribuito con 599 milioni di dollari, pari al 7% di tutta la spesa elettorale, con l’1% dei principali donatori che ha contribuito al 50% della raccolta[1].
La Silicon Valley vira a destra?
Uno dei settori che gli investitori seguono con più attenzione, vista la sua capacità di influenzare la performance dei mercati a livello globale, è quello tecnologico, un comparto che rappresenta uno dei principali centri di potere politico ed economico a livello mondiale. Tradizionalmente, la Silicon Valley è considerata una roccaforte di idee liberali e progressiste, ma con le elezioni del 2024 il fronte ha cominciato a vacillare e diversi personaggi di spicco si sono apertamente schierati con Trump. Primo tra tutti Elon Musk, CEO di Tesla e proprietario del social network X, che non si è limitato a sostenere la campagna repubblicana attraverso ingenti donazioni, ma ne ha preso parte attivamente, partecipando a comizi e addirittura proponendosi per incarichi pubblici all’interno dell’ipotetica nuova amministrazione Trump. Oltre a Musk, altri nomi importanti come Marc Andreessen e Ben Horowitz, a capo di una delle principali aziende di venture capital a livello globale, hanno dichiarato il loro sostegno ai repubblicani, donando 25 milioni di dollari a testa a livello personale e 50 milioni attraverso la propria azienda. A loro si uniscono Doug Leone e Shaun Maguire, partner di Sequoia Capital, mentre Mark Zuckerberg, CEO di Meta, pur specificando di non voler essere coinvolto nella campagna elettorale, ha apertamente elogiato Trump in un’intervista.
A pesare, in questo senso, sono sicuramente le promesse di Trump ridurre la pressione fiscale sulle aziende, ma anche il passato di Kamala Harris, che durante il suo mandato come procuratrice generale della California ha avviato azioni legali contro giganti come Facebook e PayPal. Tuttavia, non bisogna sottovalutare il fatto che la maggior parte delle aziende e degli imprenditori legati alla Silicon Valley continui a sostenere i democratici. Il settore tecnologico, insieme a quello della comunicazione, resta infatti tra i più forti sostenitori dei democratici, con l’85% dei fondi delle aziende destinato a Kamala Harris. La candidata democratica ha ottenuto il sostegno pubblico di figure chiave come Reid Hoffman (co-fondatore di LinkedIn), Sheryl Sandberg (ex COO di Meta) e Reed Hastings (co-fondatore di Netflix), che ha donato 7 milioni di dollari. Tra i grandi donatori figurano anche Laurene Powell Jobs, vedova di Steve Jobs, e Sam Altman, CEO di OpenAI. Molte delle aziende tecnologiche più influenti, come Amazon, Apple, Google e Nvidia, mantengono però una posizione neutrale, con i loro CEO che hanno scelto di non esprimere pubblicamente le proprie preferenze elettorali.
Il settore finanziario attratto dalla promessa di deregulation
In testa alla classifica delle donazioni c’è il settore della finanza, con oltre 1,7 miliardi di dollari di sovvenzioni. Mentre i finanziamenti aziendali tendono a distribuirsi equamente tra gli schieramenti, però, le donazioni personali riflettono una storica preferenza per i repubblicani. Secondo gli analisti, il settore finanziario potrebbe essere tra i maggiori beneficiari della vittoria di Trump, con le azioni delle aziende finanziarie che si muovono parallelamente alle prospettive di una vittoria repubblicana. Del resto, fu proprio il settore finanziario a guidare il rally post-elettorale seguito al successo di Trump nel 2016, registrando performance superiori al 10% nella prima settimana. Per consolidare questo trend, Trump si è rivolto direttamente a Wall Street, promettendo di liberarla dalle "regolamentazioni onerose", alcune delle quali imposte proprio dall'amministrazione Biden all’indomani del fallimento della Silicon Valley Bank. L'obiettivo è rivitalizzare fusioni e acquisizioni, così come le offerte pubbliche iniziali, che hanno subito un rallentamento sotto la presidenza democratica, anche a causa di un numero record di indagini sulle fusioni aziendali avviate dai procuratori nel 2023.
Il passato di Kamala Harris, che ha alle spalle una serie di diatribe legali con l’industria finanziaria, non aiuta sicuramente: in veste di procuratrice generale della California, Harris ha sostenuto la causa dei proprietari di immobili contro le grandi banche responsabili della cattiva gestione dei mutui durante la crisi finanziaria, ottenendo nel 2012 un accordo da 20 miliardi di dollari. Inoltre, tra i suoi principali atti legislativi da senatrice vi è stato il supporto al disegno di legge “Accountability for Wall Street Executives Act”, che avrebbe permesso ai procuratori statali di citare in giudizio i registri bancari nelle indagini sulle frodi finanziarie. Ad ogni modo, tra le figure di spicco del settore finanziario non mancano sostenitori della causa democratica, come Jonathan Gray, presidente di Blackstone, Marc Lasry della società di investimenti Avenue Capital Management, Peter Orszag, CEO e presidente di Lazard, e il barone degli hedge fund George Soros.
Sanità: in prima linea nelle battaglie regolatorie
La situazione per il settore farmaceutico è più sfumata: entrambi i candidati hanno annunciato l'intenzione di ridurre i prezzi dei farmaci, ma con strategie differenti. Da vicepresidente, Harris è stata fondamentale per l'approvazione dell’Inflation Reduction Act (IRA) del 2022, che ha dato a Medicare il potere di negoziare i prezzi dei farmaci, una misura a cui le aziende farmaceutiche si sono fortemente opposte. Nonostante la promessa di Harris di ampliare ulteriormente questa legislazione in caso di vittoria, l'industria farmaceutica ha investito significativamente nella sua campagna, con 154 milioni di dollari di donazioni ai democratici, contro soli 94 milioni ai repubblicani. Tra le proposte più popolari del programma democratico, vi è la stretta sui comportamenti anticoncorrenziali degli intermediari farmaceutici (PBM), proposta che ha attirato il sostegno di figure come il miliardario Mark Cuban, fondatore di Cost Plus Drugs, che mira a bypassare i PBM e offrire farmaci generici a prezzi scontati. Secondo molti osservatori, Trump pagherebbe la vaghezza dei suoi programmi in materia sanitaria. Durante la campagna elettorale del 2016 il magnate newyorkese aveva promesso limitazioni al prezzo dei farmaci, una proposta che non si è mai concretizzata; oggi Trump esprime posizioni più in linea con le lobby farmaceutiche, criticando l’IRA ma senza promettere di abrogarlo.
Combustibili fossili o energie rinnovabili
Le differenze più marcate tra i due programmi elettorali sono quelle in materia di politiche energetiche, tanto che Trump ha promesso di cancellare le politiche di transizione energetica introdotte dai democratici nell’ambito della sua spending review. La campagna repubblicana è iniziata all’insegna di una vera e propria "chiamata alle armi": il tycoon ha organizzato una cena a Mar-a-Lago in Florida con più di 20 dirigenti di aziende come Chevron, Exxon e Occidental, chiedendo esplicitamente 1 miliardo di dollari e presentando un programma diretto a eliminare le barriere alla trivellazione, abolire la sospensione delle esportazioni di gas e annullare le nuove regole per ridurre l'inquinamento automobilistico. Le aziende hanno risposto con donazioni significative, anche se ad oggi il miliardo di dollari non è ancora stato raggiunto. Tra i principali sostenitori ci sono Kelcy Warren, amministratore delegato dell'operatore di oleodotti Energy Transfer, che ha donato 6 milioni di dollari, e Timothy Dunn, dirigente della compagnia petrolifera texana CrownQuest, che ha versato 5 milioni di dollari a un Super PAC pro-Trump.
Dal canto suo, Harris non ha fatto del cambiamento climatico il fulcro della sua campagna, anche se, in caso di vittoria, le sue politiche energetiche dovrebbero proseguire nel solco dell’amministrazione Biden, promuovendo veicoli elettrici, energie rinnovabili e decarbonizzazione.
In definitiva, i comparti che sostengono Kamala Harris in modo più deciso sono l'istruzione, la tecnologia, i media e l'industria musicale, i dipendenti pubblici e i sindacati dei lavoratori del settore manifatturiero. I settori che sostengono Trump sono, invece, il petrolifero e il minerario, oltre alle grandi aziende agricole e all'automotive. Un caso interessante è quello delle criptovalute, con il loro crescente sostegno verso la campagna repubblicana, a seguito delle dichiarazioni pro-Bitcoin di Trump. Tutti questi settori potrebbero mostrare volatilità dopo le elezioni, un trend che potrebbe essere sfruttato dagli investitori interessati a selezionare settori o aziende specifiche.
Dunque, i finanziamenti sono davvero decisivi nella corsa alla presidenza? A livello di Congresso, è vero che chi spende di più tende a vincere, ma questo dato è falsato da un “effetto bandwagon”, che vede i finanziamenti spostarsi verso i candidati più forti. Studi approfonditi hanno dimostrato che non vi è una relazione chiara tra spesa e vittoria alle elezioni: il caso più emblematico è quello del 2016, quando Hillary Clinton, nonostante gli investimenti più elevati in campagna elettorale, non riuscì a sconfiggere Trump, anzi in questo caso fu proprio la spesa elevata a supportare la retorica che la identificava come candidata delle élite. Ciononostante, i finanziamenti restano un fattore fondamentale e le spese dei due candidati si bilanciano in una sorta di corsa agli armamenti che sta facendo lievitare i costi della politica. Il sistema elettorale ha un ruolo decisivo: molti dei fondi vengono spesi in campagne pubblicitarie negli Stati in bilico, dove anche poche migliaia di voti potrebbero fare la differenza.