Economia

Dazi e incertezza spingono al ribasso le stime, nonostante il calo di tassi ed energia

Redazione
 
Dazi e incertezza spingono al ribasso le stime, nonostante il calo di tassi ed energia

Secondo l'ultima analisi del Centro Studi di Confindustria, l'economia italiana si trova ad affrontare una fase di rallentamento, con una crescita modesta nel primo trimestre del 2025. Nonostante la riduzione dei tassi d'interesse e il calo dei prezzi dell'energia, l'incertezza globale e l'introduzione di nuovi dazi commerciali, in particolare da parte degli Stati Uniti, stanno influenzando negativamente le prospettive economiche.

Dazi e incertezza spingono al ribasso le stime, nonostante il calo di tassi ed energia

Confindustria stima che tali fattori potrebbero comportare una diminuzione della crescita del PIL italiano di 0,3 punti percentuali nel biennio 2025-2026, principalmente a causa di una contrazione dell'export di beni (-1,2%) e degli investimenti in macchinari (-0,4%). Il Presidente di Confindustria, Emanuele Orsini (in foto), ha sottolineato l'importanza di evitare un'escalation commerciale con gli Stati Uniti, evidenziando come l'export verso questo paese sia stato determinante per la crescita economica dell'Italia nel periodo post-Covid, con un surplus commerciale di 42 miliardi di euro nel 2024 .

Unico spiraglio: il costo dell’energia finalmente cala, con il gas che torna sotto i 40 euro per megawattora e l’elettricità che segue, offrendo un timido sollievo a famiglie e imprese. E l’inflazione, spinta in alto dai rincari energetici di marzo, sembra destinata a tornare sotto controllo, complice una politica monetaria che cambia marcia. La BCE taglia ancora i tassi, portandoli al 2,25%, fiduciosa in un rientro della componente core e in un equilibrio prossimo al target. Anche per le imprese italiane il costo del credito comincia a scendere, ma non basta.

Gli investimenti frenano, zavorrati da un clima di fiducia in progressiva erosione e da un’incertezza economica che non accenna a dissolversi. I giudizi peggiorano nei servizi e nelle costruzioni, restano stabili nell’industria, ma senza entusiasmo. I consumi non aiutano: il reddito reale arretra, la quota di risparmio torna ai livelli pre-Covid, ma la spinta alla spesa è debole, come confermato dai dati sulle vendite e sulla fiducia delle famiglie. Eppure, nonostante tutto, il mercato del lavoro continua a tenere.

Occupati in crescita, disoccupazione in calo, ma con un aumento degli inattivi che fa suonare un primo campanello. I dati vanno maneggiati con cautela: le revisioni non sono rare e il trend potrebbe essere effimero. Anche nei servizi, al di là del buon avvio del turismo, la dinamica resta incerta: i fatturati calano, gli indicatori anticipatori perdono smalto, la fiducia si contrae mese dopo mese. L’industria, che a gennaio aveva lasciato sperare in una ripresa, torna a perdere quota, sotto il peso dei dazi e di un commercio internazionale sempre più ingessato.

Il manifatturiero è il settore più esposto e il timore di una crisi strutturale si fa più concreto. L’Eurozona non offre appigli: l’industria tedesca prova un timido recupero, la Francia cede ancora, la Spagna scivola più in basso, confermando un quadro che resta fragile. Anche i PMI restano sotto soglia, rafforzando la sensazione che il 2025 si sia avviato con il freno a mano tirato. Nelle ore immediatamente precedenti l’escalation protezionistica, l’economia statunitense sembrava ben impostata.

La produzione industriale, pur registrando a marzo un calo dello 0,3%, ha comunque permesso al primo trimestre del 2025 di chiudere con un +1,3%, in netto miglioramento rispetto al -0,3% del quarto trimestre 2024. Le vendite al dettaglio, salite dell’1,4% da un precedente +0,2%, segnalano una dinamica dei consumi ancora solida, anche se oscurata da un crollo nella fiducia dei consumatori che lascia presagire un'inversione di tendenza nei mesi successivi. Sul fronte occupazionale, la creazione di 228mila posti a marzo (più del doppio rispetto ai 117mila del mese precedente) ha rafforzato l’impressione di un’economia ancora tonica.

Intanto, in Cina, la manifattura ha accelerato al ritmo più veloce degli ultimi quattro mesi, alimentata da nuovi ordini esteri e da un export in crescita annua del 12% a marzo, in evidente anticipo sull’entrata in vigore dei dazi. L’effetto frontload, però, lascia intravedere una brusca frenata nei prossimi mesi, che potrebbe rendere irraggiungibile il target ufficiale di crescita del PIL “intorno al +5%”. Pechino potrebbe ora usare come leva strategica l’export di terre rare, la cui interruzione è già stata annunciata, per ottenere concessioni sul fronte tariffario. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump ha sospeso fino al 9 luglio i dazi reciproci del 20% applicati a un ampio paniere di paesi, inclusa l’UE, mantenendo però attivi dal 2 aprile quelli del 10% su gran parte delle importazioni.

Esclusi, almeno per ora, beni strategici come farmaci, semiconduttori, rame, minerali critici ed energia, oltre a una parte delle importazioni da Canada e Messico. Il colpo più duro arriva sui settori industriali: dazi al 25% colpiscono acciaio, alluminio, autoveicoli e componenti a partire dal 3 maggio. Il conflitto commerciale con la Cina ha raggiunto livelli record, con tariffe effettive salite al 145% sui beni cinesi e al 125% su quelli statunitensi.

A questo si sommano barriere non tariffarie sempre più aggressive: la Cina ha interrotto l’export di terre rare e l’importazione di Boeing, aumentando la tensione. Nel complesso, i nuovi dazi portano l’incidenza tariffaria sull’import statunitense a circa il 28%, superando perfino il famigerato Smoot-Hawley Act del 1930, che ne aveva innalzato il livello dal 13% al 20% con effetti devastanti per il commercio globale. L’impatto sull’economia USA è già visibile: i dazi agiscono come una tassa su una quota rilevante del PIL, considerato che le importazioni di beni rappresentano l’11,3% dell’economia americana e il 38,3% della sua produzione industriale.

Il risultato è un incremento dei prezzi, una contrazione della domanda interna e un’esplosione dell’incertezza politica, oggi ai massimi livelli. I mercati reagiscono con forte volatilità: l’oro è salito del 21,7% rispetto al 2024, consolidando il suo ruolo di bene rifugio, mentre il dollaro ha perso il 5,6% contro l’euro a metà aprile, passando da 1,08 a 1,14, amplificando gli effetti dell’inflazione importata. Il commercio mondiale, intanto, ristagna: secondo le stime del CSC, l’incertezza globale di politica economica è aumentata dell’80% rispetto al 2024 e porterà a una contrazione delle previsioni di crescita del commercio internazionale di 2-2,5 punti percentuali nel biennio 2025-2026, anche in assenza di nuove crisi finanziarie.

La frattura profonda tra il più grande importatore del mondo (gli USA con il 13,1% dell’import globale nel 2023) e il maggiore esportatore (la Cina, con il 14,2%) sta rimodellando le catene del valore globali, riducendo l’efficienza e aumentando i costi. Per l’Europa, le implicazioni sono complesse. Se da un lato il calo delle quote cinesi nell’import USA scese al 13,3% nel 2024, dal 21,5% del 2017 potrebbe aprire spazi commerciali, il contesto resta ostile: più chiusura, più barriere, più concorrenza.

Inoltre, i precedenti del 2018-2019 insegnano che i benefici di breve periodo finiranno probabilmente altrove, in Asia e America Latina, grazie a triangolazioni e rilocalizzazioni produttive. In parallelo, la sovrapproduzione cinese verrà dirottata verso l’Europa, aggravando la pressione concorrenziale e deflazionistica, tanto che saranno indispensabili nuove misure di salvaguardia e antidumping. Il pericolo più insidioso resta però lo svuotamento industriale: con la delocalizzazione verso gli Stati Uniti delle fasi produttive più critiche, l’Europa rischia una perdita strutturale di capacità manifatturiera.

E l’Italia? Fortemente esposta. Gli USA sono la principale destinazione extra-UE di beni, servizi e investimenti diretti esteri italiani, oltre che la prima sede di multinazionali controllate da aziende italiane. Il manifatturiero da solo rappresenta oltre il 10,8% dell’export italiano verso gli USA, attivando, secondo il Centro Studi Confindustria, quasi il 7% della produzione manifatturiera nazionale, pari a circa 90 miliardi di euro. I settori più vulnerabili sono farmaceutico, automotive e macchinari.

Le simulazioni del Centro Studi Confindustria mostrano che dazi e incertezza potrebbero costare all’Italia uno 0,3% di PIL nel biennio 2025-2026, per effetto di un calo dell’export di beni dell’1,2% e una riduzione degli investimenti in macchinari dello 0,4%. Per l’Italia è cruciale evitare ritorsioni tariffarie da parte della UE, che avrebbero effetti depressivi su prezzi e fiducia. Al contrario, serve puntare sull’apertura: concludere rapidamente accordi commerciali strategici con partner come il Mercosur e l’India è l’unico modo per evitare una marginalizzazione irreversibile.

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