Cultura

Yukio Mishima, la voce degli eroi caduti

Barbara Bizzarri
 

Quando iniziò a scrivere la tetralogia Il mare della fertilità, Yukio Mishima aveva 40 anni e una devozione totale per il Bushido. La sua fine fu il perfetto coronamento di ciò che aveva scritto, il seppuku era la sua resa eroica alla rincorsa di un mondo inesorabilmente perduto che ritorna a interferenze, come nella seduta spiritica descritta in Voices of the Fallen Heroes: And Other Stories, una nuova selezione di racconti in uscita oggi per i tipi di Penguin Modern Classics in occasione del centenario della nascita dello scrittore.
Celebrazione per cui anche il ministro della Cultura Alessandro Giuli ha annunciato a breve una mostra per rendere omaggio a ''una delle figure più significative della letteratura mondiale, che ha esplorato temi universali come il conflitto tra tradizione e modernità e il rapporto tra bellezza e sacrificio''.

Yukio Mishima, la voce degli eroi caduti

Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, gli spiriti dei giovani ufficiali dell’esercito imperiale e dei piloti kamikaze della Seconda Guerra Mondiale piangono il moderno declino del Giappone e rimproverano l’Imperatore che ha abdicato alla propria divinità rivelandosi umano, troppo umano, il Trono del crisantemo, schiacciato dall'anelito a una modernità vissuta come un corpo estraneo e quasi contaminato di kegare per chi, come Mishima, aveva fatto proprio il codice dei samurai. E disprezzava la resa a chi, nella nazione descritta al Congresso degli Stati Uniti dal generale Douglas MacArthur come "dedita al primato della libertà individuale e della dignità personale", con "un governo veramente rappresentativo impegnato nel progresso della moralità politica, della libertà di impresa economica e della giustizia sociale", vedeva solo "un'armonia ipocrita" in cui le emozioni erano "smorzate e gli angoli acuti levigati".

L'autore, poeta, attore e regista, culturista e kendōka, è stato una delle figure culturali più importanti del Giappone moderno e il suo tentativo di colpo di Stato, concluso con un suicidio rituale, ha impressionato l’Occidente, del tutto privo di una tradizione che vede nel darsi la morte una estrema forma di dignità e di preservazione dei propri valori. "L'unica cosa che considero importante è ciò che è esistito una volta, o avrebbe dovuto esistere", disse Mishima, corpo perfetto, per scelta, nel Ventesimo secolo, ma mente e anima in un Giappone che sentiva scomparso in una sorta di tradimento da parte di chi avrebbe dovuto invece custodirlo e proteggerlo da ingerenze esterne.

Questa ricerca di un paradiso perduto era ciò che animava l'autore, estraneo a un Paese vinto la cui apparenza non lo convinceva affatto: "Di questi tempi, chiunque non vedesse il mondo come destinato alla distruzione era semplicemente cieco", diceva diciassette anni dopo una guerra mondiale e lo sgancio delle bombe atomiche, l'abbondanza e la stabilità del dopoguerra come fasulle quinte teatrali buone soltanto per gli impostori e gli auto-illusi. Mishima sognava un'élite giapponese nobile e fiera di cui non trovava più tracce nel presente e, non potendo vivere come tale, scelse invece di morire nello stesso modo in cui un guerriero avrebbe voluto farlo.

Hirohito, firmando la Dichiarazione del 1° gennaio 1946, redatta in modo umiliante dalle potenze alleate, aveva liquidato il senso di eccezionalità e della potenza dell’antica visione che il Giappone aveva di sé stesso come "una falsa concezione". Questo, per Mishima, era un tradimento dello spirito nazionale, e per quella concezione era disposto a morire. Il 25 novembre 1970, lasciò un biglietto nel suo ufficio in cui diceva: "La vita umana è limitata, ma io vorrei vivere per sempre". Poi con quattro uomini della Società degli Scudi, Tate no Kai, la sua milizia fondata come risposta agli Stati Uniti che proibivano al Giappone, con il Trattato di San Francisco del 1951, di avere un esercito, entrò nel quartier generale del Comando orientale delle Forze di autodifesa giapponesi e fallì miseramente nel tentativo di convincere i soldati a lanciare un colpo di Stato per ripristinare la divinità imperiale. Così estrasse una spada giapponese e se la conficcò in quella "struttura potente e tragica, muscoli scultorei indispensabili in una morte romanticamente nobile", per uscire di scena, “verso la brughiera vasta, affrontando torri di nubi".

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