Politica

Giorgia Meloni ricompatta la maggioranza. Ma sino a quando?

Redazione
 
L'incontro di ieri sera tra il presidente del Consiglio e le quattro gambe del tavolo della maggioranza è finito in un clima di (apparente) rappacificazione tra alcune delle rissose componenti della coalizione, che hanno promesso di non azzuffarsi.
Ma sino a quando, è la domanda che in molti si pongono?

Matteo Salvini, da un lato, e Antonio Tajani, dall'altro, nelle ultime settimane non hanno perso l'occasione di ribadire le proprie posizioni, e già questo ha significato marcare le differenze sostanziali che ci sono tra Lega e Forza Italia. Con un particolare che sembra sfuggire a Matteo Salvini: le elezioni regionali in Emilia-Romagna e Umbria hanno confermato il trend che vede la Lega perdere consensi e, quindi, rappresentanze nelle assemblee elettive (un solo consigliere in ciascuno dei due consigli regionali) e, di contro, Forza Italia irrobustirsi in numeri e percentuali, segnando il sorpasso nei confronti dell'alleato.

Si potrebbe dire che aggiustamenti del peso politico di un partito, tra un'elezione generale e l'altra, sono fisiologici e non dovrebbero incidere più di tanto perché suscettibili di mutamenti. Ma è dura da mandare giù, per Tajani, il fatto che, dal settembre di due anni fa a oggi, il quadro politico nella maggioranza è mutato, a favore di Forza Italia e a discapito della Lega.
Con l'aggravante, per il partito di Salvini, che il trend di perdita di voti è una costante delle ultime consultazioni elettorali e di questo bisogna pure tenere conto.
Forse non in termini di redistribuzione delle deleghe (come potrebbe accadere in caso di rimpasto, ipotesi al momento nemmeno ipotizzata), ma almeno di considerazione verso le proposte di ciascuno, con quelle formulate da chi ha una percentuale superiore di consensi magari guardate con occhio più benevolo.

Ma questo è un clima che Giorgia Meloni non vuole né può permettersi perché, a lungo andare, logorerebbe la tenuta di una maggioranza che, sebbene ripeta in continuazione di essere coesa, si regge attualmente solo sul prestigio del premier, che però sa benissimo di non potere consentire alle beghe all'interno della coalizione di mettere a rischio il quadro di riforme sulle quali ha basato la sua leadership.
È però difficile pensare di ridurre alla calma i suoi rissosi compagni di viaggio, soprattutto perché Matteo Salvini coglie ogni possibile opportunità per marcare la sua differenza rispetto agli altri.

Come ha fatto nel caso della richiesta di arresto, formulata dalla Corte penale internazionale, nei confronti del primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu (e dell'ex ministro della Difesa, Yoav GHallant).
Fermo restando che Salvini può esprimere il suo giudizio sull'iniziativa della Cpi, ma se - da vicepremier - dice che è pronto ad accogliere a braccia aperte in Italia Netanyahu di fatto rappresenta una posizione che appartiene alla diplomazia italiana e, ancor prima, alla presidente del Consiglio.
L'ennesima fuga in avanti da parte di Salvini, che evidentemente non ha accanto a sé chi possa consigliarli accortezza nelle sue espressioni.
Ma non è che altri suoi colleghi di governo abbiano mostrato molta conseguenzialità nei loro ragionamenti quando hanno detto che, prima di giudicare, devono prendere atto delle carte alla base della decisione della Cpi, lasciando ad intendere che, non condividendola, potrebbero anche disattenderne l'applicazione.
Per la serie: se ci piacciono le accettiamo; altrimenti non ne teniamo conto, dimenticando che l'Italia riconosce ogni atto della Corte penale internazionale.
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