Giulio Andreotti, che per molti era il Belzebù della politica, anche quando era accusato di fatti penalmente rilevanti, anche quando qualche magistrato decideva di indagare su di lui, mai si esprimeva sull'operato dei giudici. Respingeva le accuse, con il suo solito sorriso sghembo e con le sue frasi quasi enigmatiche, ma si fermava sull'uscio delle stanze di chi doveva giudicarlo.
Il senso distorto della politica italiana verso la Giustizia
Ma Andreotti era Andreotti e, se anche per i suoi avversari (non necessariamente al di fuori della Democrazia Cristiana) incarnava il Male assoluto, sapeva cosa, quando e come dire. Chiamatelo senso dello Stato o come più aggrada, ma quello era l'uomo, che aveva delle regole, che seguiva sempre anche quando si sentiva sotto attacco.
Oggi questo canone si è definitivamente ribaltato, grazie anche a una narrazione favorita dai media che, a seconda di quale sia la sponda da cui guardano scorrere il fiume, interpretano, più che cercare di capire (non tutti ci riescono), l'essenza di un provvedimento adottato dai giudici.
Il caso Delmastro
Il caso del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro - senza volere entrare più di tanto nelle vicende del processo di primo grado che per lui si è concluso con una condanna a otto mesi di reclusione per rivelazione di atti coperti dal segreto d'ufficio - è di una chiarezza che lascia pochi dubbi sul fatto che, per i nostri politici, si rispettano solo le sentenze a loro favore, mentre sulle altre si può sparare a zero, anche con accuse infamanti.
Quando Delmastro dice che la sua condanna è frutto di una sentenza politica sostiene essenzialmente due cose. La prima è che non ha bisogno di leggere le motivazioni della sentenza (che lui, che ricorda sempre al mondo intero di essere un avvocato, dovrebbe aspettare prima di commentare).
La seconda è che attribuisce la condanna non a una analisi terza dei fatti di causa - compito di un magistrato giudicante -, ma alla colorazione politica del collegio che lo ha ritenuto colpevole.
Ora, se sul primo punto (le motivazioni della sentenza devono ancora essere scritte, a differenza del dispositivo, di cui dà subito lettura in aula) tutti dovremmo essere d'accordo, soprattutto se, dietro la scrivania, si ha sotto vetro e incorniciata la laurea in giurisprudenza, sul secondo bisogna pure fare qualche commento.
Perché, se è veramente convinto di quel che ha detto, Delmastro alle parole dovrebbe fare seguire i fatti. Ovvero dire che con altri giudici la sentenza sarebbe stata diversa.
Ergo: il tribunale ha volutamente falsato la verità, piegandola a una logica politica. Cosa che non si può escludere a priori, ma, nel momento in cui si afferma d'essere stato condannato da innocente da chi ha rifiutato la verità, si va oltre, perché non si ipotizza una errata valutazione dei fatti, ma una colpevole manipolazione.
Poco importa, poi, che il tribunale ha disatteso la richiesta del pm di assolvere l'imputato, non avendo ravvisato nel suo comportamento - che c'è stato, frutto di una motivazione politica, l'attaccare gli avversari politici - il dolo. Si può dire che il pubblico ministero ha sostenuto che, pur assumendosene la responsabilità, l'imputato non ha compreso la portata delle sue parole.
Una tesi da rispettare, anche se non è che Delmastro - l'avvocato Delmastro - ci faccia una gran figura. Quasi apparendo - e non può essere certo vero - come qualcuno che non distingue la colpa dal dolo.
Conseguenze e reazioni
E ora la domanda centrale, posto che Delmastro ha raccolto vagonate di attestazioni di solidarietà dagli alleati della maggioranza: può un sottosegretario alla Giustizia mettere in dubbio l'onestà (non mentale, proprio l'onestà morale) di magistrati restando al suo posto, forte anche dello spassionato appoggio del suo capo, Carlo Nordio, che i suoi ex colleghi in toga nera considerano sempre di più un oggetto estraneo al corpo giudiziario?
Lasciamo ad altri il giudizio definitivo, anche se l'Associazione nazionale magistrati ha replicato con toni duri, laddove ha sottolineato lo sconcerto "nel constatare che ancora una volta il potere esecutivo attacca un giudice per delegittimare una sentenza. Siamo disorientati nel constatare che il ministro della Giustizia auspica la riforma di una sentenza di cui non esiste altro che il dispositivo".
E ancora: "Sono dichiarazioni gravi, non consone alle funzioni esercitate, in aperta violazione del principio di separazione dei poteri, che minano la fiducia nelle istituzioni democratiche".