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C'è un campetto da basket a Milano dove, da otto anni, fiorisce un gesto d'amore ostinato. Laura Scolari ci va regolarmente, aggrappa alla rete un girasole e se ne va in silenzio. Lo fa per Alessandro, suo figlio, che lì aveva quindici anni e un futuro davanti quando il cuore gli si è fermato all'improvviso. Otto anni. Duecento girasoli, forse più. Un rituale privato, discreto, che non chiedeva nulla a nessuno se non un briciolo di rispetto. Ma evidentemente anche quello, in certi angoli dell'animo umano, è troppo da pretendere.
I girasoli della speranza
Da qualche mese, qualcuno ha cominciato a strappare quel fiore. Sistematicamente. Come se desse fastidio, come se quel giallo acceso stonasse con l'asfalto e il cemento, come se il dolore di una madre potesse essere trattato alla stregua di un rifiuto urbano da eliminare. Laura, con una pazienza che solo chi ha attraversato certi abissi può avere, ha provato a spiegare.
Ha scritto un bigliettino, poche parole nella voce di suo figlio: «Non strapparmi. Non mi sono più rialzato dopo essere caduto su questo campo. Questo girasole mi ricorda. Grazie, Alessandro». Un messaggio bellissimo, pieno di quella delicatezza che solo il dolore vero sa generare. Una richiesta umana, elementare. E invece no. Qualcuno, uno di quegli esseri che si muovono nel mondo lasciando dietro di sé solo squallore, ha impugnato un pennarello nero e ha replicato a penna sul bigliettino: «Se tutti mettono un fiore per ogni morto, Milano sarebbe una pattumiera».
Così, nero su bianco. Con tanto di errore grammaticale ("mettessero", ovviamente, non "mettono"), perché spesso - non sempre, ma spesso - le carogne sono anche analfabete. E imbecilli. Non c'è altro modo per dirlo. Perché ci sono gesti che vanno oltre la semplice cattiveria. Perchè questa frase non è solo cinismo: è viltà pura, è la misura di una povertà interiore così profonda da fare spavento. È l'attacco deliberato al dolore di una donna che ha perso l'unico figlio, a quindici anni, in un attimo. È la scelta consapevole di calpestare ciò che è sacro, non in senso religioso, ma nel senso più antico e profondo del termine. Ma forse è proprio questo il punto: sempre più gente non sa cosa sia il sacro. E confonde la libertà con il diritto di essere meschina, scambiando il cinismo per intelligenza, e credendo finanche di essere interessante. Mentre è solo misera.
Eppure, ed è qui che la storia prende una piega inaspettata, quel gesto spregevole ha innescato qualcosa di meraviglioso. Perché la notizia, riportata dal Corriere della Sera grazie alla testimonianza di una cittadina indignata, ha fatto il giro del quartiere, poi della città. E Milano ha risposto. Non con le parole, ma con i fatti. Anzi: con i girasoli. In poche ore, il campetto si è riempito. Decine, poi centinaia di fiori attaccati alla rete, posati a terra, accostati al bigliettino di Laura. Fiori portati da bambini, da ragazzi, da adulti, da anziani.
Mazzi regalati gratuitamente dai fiorai della zona, che hanno voluto essere parte di quella risposta collettiva. Messaggi scritti a mano, pensieri per Alessandro, abbracci a distanza per sua madre. «Un fiore non può essere considerato pattumiera», ha scritto qualcuno, «ancor più se rappresenta la memoria di un tragico avvenimento che ha scosso il nostro quartiere». E poi sono arrivate le proposte: street artist pronti a dipingere un grande girasole sul campo, amici che organizzano un torneo in ricordo del ragazzo, voci che chiedono di intitolare quell'area ad Alessandro. Ecco così che quel luogo, ferito da un atto meschino, è diventato in pochissimo tempo un piccolo monumento di umanità. Un santuario laico fatto di petali gialli e di solidarietà spontanea. E in tutto questo c'è qualcosa di profondamente commovente. Perché non solo dimostra che il bene esiste e resiste. Ma può essere contagioso quanto e più del male. E ancora, racconta che l'amore di una madre non si arrende.
Otto anni, duecento girasoli. Otto anni in cui Laura è tornata lì, sempre, nonostante tutto. Nonostante l'indifferenza, nonostante c'era chi strappava quel fiore, nonostante il dolore che non passa mai davvero quando perdi un figlio così, all'improvviso, senza senso alcuno. Otto anni in cui quel girasole è stato più di un semplice fiore: è stato una presenza, un legame, un modo per dire "tu sei ancora qui". E adesso quel girasole non è più solo. Adesso ce ne sono decine, centinaia, portati da una città che ha deciso, in modo istintivo e viscerale, di stare dalla parte giusta. Di abbracciare Laura e Alessandro. Di dire al vigliacco col pennarello: tu non ci rappresenti. E allora forse, in fondo, c'è speranza. Forse ogni volta che qualcuno cerca di strappare la memoria, la dignità, il rispetto, ce ne saranno altri cento pronti a piantare nuovi semi d'amore. Forse quel girasole buttato via come fosse pattumiera continuerà a fiorire, ancora e ancora. Perché ci sarà sempre una città, un quartiere, una comunità, un’umanità che non permetterà al buio di vincere. Poi sì, è vero: Alessandro non c'è più. Da quel campetto da basket non si è rialzato più. Ma la sua memoria sì. E continuerà a farlo, un girasole alla volta.