Felicità è un bicchiere di vino con un panino, la felicità…, cantavano Al Bano e Romina, fotografando in poche note quell’istante semplice e perfetto in cui tutto sembra trovare posto. Eppure, dietro quel sentimento tanto cantato quanto rincorso, si nasconde un universo complesso che la scienza prova da anni a misurare, quantificare e persino trasformare in uno strumento di salute pubblica.
La felicità salva la vita: fissata a 2,7 la soglia che protegge dalla malattia
È qui che entra in scena la psicologia, che cerca di mettere ordine in questo universo soggettivo definendo la felicità come uno stato emotivo positivo, un senso generale di benessere e soddisfazione. Una descrizione ordinata, asettica, che tuttavia sfiora solo la superficie di un concetto che, nella realtà, veste abiti diversi per ciascuno di noi. Perché se un evento stressante può essere inserito in una scala standardizzata per determinarne l’impatto, la felicità resta invece un campo dominato dall’autopercezione, da quel «come mi sento» che solo chi vive può davvero esprimere.
Per dare una forma misurabile a questa condizione emotiva, già negli anni Sessanta la psicologa Hadley Cantril ideò uno strumento, la Life Ladder (nota anche come Cantril Ladder), una sorta di scala esistenziale su cui ciascuno colloca la propria soddisfazione di vita con un punteggio da 1 a 10. Un esercizio di autopercezione che, nel tempo, ha permesso di osservare una correlazione: quando quel numero sale, anche di poco, qualcosa nel nostro corpo sembra muoversi in modo diverso, più protetto.
Ora un nuovo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Frontiers in Medicine, ha deciso di mettere un punto preciso su questa curva emotiva: la soglia oltre la quale la felicità inizia a produrre effetti positivi sulla salute sarebbe 2,7. Tradotto: se la percezione di benessere è troppo bassa, piccoli miglioramenti non bastano a ridurre i rischi legati alle malattie croniche; ma una volta superato quel livello minimo, ogni passo avanti contribuisce a proteggerci.
I ricercatori hanno analizzato dati raccolti tra il 2006 e il 2021 in 123 Paesi, provenienti da fonti sanitarie, statistiche di sviluppo globale e sondaggi di opinione. Le malattie prese in considerazione sono quelle non trasmissibili, come tumori, cardiopatie, diabete o asma, responsabili nel 2021 del 75% dei decessi non legati alla pandemia.
In questo contesto, la felicità appare come una sorta di scudo invisibile: una volta varcato quel fatidico 2,7, ogni aumento dell’1% del livello di soddisfazione personale corrisponde a una riduzione stimata dello 0,43% della mortalità tra i 30 e i 70 anni. Secondo gli studiosi, questo dato potrebbe essere un punto di partenza per ripensare le politiche sanitarie.
«La felicità – spiegano – non è soltanto un sentimento individuale, ma una risorsa misurabile per la salute pubblica». Un concetto che sposta la questione su un piano collettivo: non basta invitare le persone a essere felici, bisogna creare condizioni che rendano possibile superare quella soglia. E qui entrano in gioco i contesti sociali: stili di vita sani, prevenzione dell’obesità, riduzione dell’abuso di alcol, aria più pulita, spesa sanitaria adeguata. Non è il sorriso spontaneo a fare miracoli, ma l’insieme di fattori che permettono a quel sorriso di nascere in un ambiente meno ostile.
La media mondiale registrata nella ricerca è di 5,45, con punte minime a 2,18 e massime vicine a 7,97, senza che siano emersi effetti negativi legati a livelli considerati “eccessivi”. Dunque sì, secondo la scienza ci si può spingere verso una felicità alta senza temere effetti collaterali. Resta un limite: i dati sono autosegnalati, quindi legati alla percezione individuale. Per questo gli studiosi auspicano ricerche che includano anche indicatori più concreti, come gli anni vissuti con disabilità o i ricoveri ospedalieri, e che tengano conto di Paesi a basso reddito o in guerra.