Ci sono dei momenti, nella vita di ciascuno, in cui sembra che si concentrino solo problemi, importanti e incalzanti, da risolvere e in fretta. Come sta accadendo a Giorgia Meloni che, di ritorno dal secondo viaggio-lampo negli Stati Uniti nell'arco di pochi giorni, sull'imponente scrivania di Palazzo Chigi ha ritrovato dei dossier di cui occuparsi e in grande fretta.
E sono problemi possono creare tensioni dentro la maggioranza di governo, che tutto pensava meno che, a metterne in dubbio la più volte sbandierata coesione, fossero faccende interne e non causate da una opposizione che sembra non sapere cogliere l'opportunità di una azione realmente capace di mettere in difficoltà il centro-destra.
Molti e delicati dossier sulla scrivania di Giorgia Meloni
Difficile capire, tra i problemi, quale sia più urgente da affrontare per il presidente del Consiglio.
Il primo potrebbe essere quello legato al futuro di Daniela Santanchè che, dopo il rinvio a giudizio per i presunti taroccamenti sui conti di Visibilia, rischia di andare a processo anche per altre vicende.
Una delle quali molto imbarazzante, secondo cui, durante il periodo della pandemia, dipendenti della sua società, Visibilia, lavoravano normalmente, mentre invece figuravano in cassa integrazione Covid a zero ore.
A rendere ancora più imbarazzante (ancorché tutta da provare processualmente) la cosa è che la truffa avrebbe avuto come parte offesa l'Inps, erogatrice della Cassa integrazione.
Inps che, lo ricordiamo incidentalmente, ''è'' lo Stato.
Il futuro della ministra del Turismo, però, non è solo legato ai processi che prima o poi dovrà affrontare - quello sulla vicenda della cassa integrazione attende la decisione della Cassazione per la competenza territoriale, tra Roma e Milano -, quanto alla voglia di Giorgia Meloni di fare restare il governo sulla graticola dell'opinione pubblica, e quindi dell'opposizione, nell'attesa che Daniela Santanchè esca dalla palude nella quale si ritrova. Perché, al di là del fatto che siamo ancora nella fase di un rinvio a giudizio (quindi ben lontani da una condanna definitiva), offrirsi agli attacchi e alle critiche per un periodo indefinito farebbe solo il male dell'esecutivo. I prossimi giorni saranno, comunque, decisivi, con un '''dentro o fuori'' che, nel caso in cui la ministra restasse al suo posto, costituirebbe un insostenibile imbarazzo per il governo (un processo può anche essere accettato, ma qui ce n'è più d'uno).
E poi c'è Matteo Salvini che, dopo l'assoluzione di Palermo, era ringalluzzito nella sua feroce determinazione di tornare al Viminale per combattere le sue battaglie, e ora ha dovuto fare fronte all'emergenza treni, senza sentirsi accanto realmente - quindi non solo a parole - gli alleati, che sembrano essere infastiditi dalle sue strategie di comunicazione.
I problemi dei treni sono fisiologici e ad essi si sta ponendo riparo con un massiccio piano - da cento miliardi - che dovrebbe dare una spinta decisiva verso quell'eccellenza che i Gruppo Fs da sempre persegue.
Quindi, anche ritardi e incidenti ricadono in una casistica e, di conseguenza, messi in conto.
Ma Salvini, quando è stato incalzato dalle opposizioni, affinché rispondesse in aula, ha rimandato e rimandato, fino a quando s'è palesata l'ipotesi di un piano di sabotaggi, frutto di una regia unica e per questo criminale al di là di quel che è accaduto e lui ha colto la palla al balzo.
Quando ci sono casi del genere - parliamo delle cause di blocchi e disservizi - la responsabilità ha due vesti: quella politica, che chiede risposte appunto politiche, e quella materiale, in cui interagiscono più soggetti, a cominciare dalla magistratura.
Il fatto che Salvini abbia tardato a spiegare e spiegarsi in aula ha forse alimentato, magari anche dentro la maggioranza, il fastidio di un modo di fare politica basato sulle parole e non sui fatti concreti. E la circostanza che, in aula, Salvini avesse attorno a sé solo ministri leghisti qualcosa la fa capire del clima che si respira nella maggioranza. Dentro cui, peraltro, soffiano altri venti impetuosi sul delicato problema delle candidature alle prossime regionali.
Messa da parte la guerra di Vincenzo De Luca nei confronti di quello che dovrebbe essere ancora il suo partito (il Pd) e che gli nega il terzo mandato, è il nodo del Veneto a infiammare le vicende dentro la maggioranza.
Il problema è semplice: c'è il divieto per il terzo mandato, ma - dice Luca Zaia, presidente della Giunta regionale del Veneto - se ho lavorato bene e questo mi è riconosciuto da tutti, perché non darmi la possibilità di restare?
Ragionamento che non fa una grinza, se non che il tetto al terzo mandato da presidente è una misura generale, che non può essere modulata a seconda del giudizio di Zaia (ma anche di De Luca).
Lo stesso Zaia, della vicenda, sta facendo un fatto che è insieme personale, ma anche territoriale, rivendicando ai veneti di decidere loro da chi farsi governare.
Ma questo assunto, che può essere condivisibile, ma anche no, sembra non tenere in considerazione il fatto che, in Veneto, la Lega non è più il primo partito e forse neanche il secondo, sopravanzata da Fratelli d'Italia che, guardando numeri e percentuali, reclama la candidatura a presidente, facendo appello all'unità del centro-destra.
Giorgia Meloni, quindi, si trova a dovere sbrogliare anche questa matassa, nella consapevolezza che, sull'altare dell'alleanza, non può certo chiedere ai suoi di fare un passo indietro e quindi mettere da parte le ambizioni. Ma il presidente del consiglio deve anche valutare se, dalle sue decisioni da capo del partito, possono derivare ulteriori frizioni con Salvini che al momento, al di là dei toni e delle intemperanze della sua comunicazione, resta alleato affidabile.