Nelle notti londinesi, quelle in cui il vento della bruma sibila tra le arcate di Westminster scivolando rarefatto lungo le sponde increspate del Tamigi, si aggira un'ombra più ingombrante di qualsiasi spettro regale: il conto. QUEL conto. Una creatura proteiforme che si gonfia a ogni starnuto della corona, e che Norman Baker - anima lib-dem di vocazione repubblicana, già ministro per gli Affari Interni - ha deciso di vivisezionare, voce per voce, in un pamphlet dalla perspicuità implacabile intitolato Royal Mine, National Dept. Un bisticcio lessicale che in inglese acquista una grazia sovversiva, dove il possessivo e la miniera si abbracciano per ironia del fato grammaticale.
La Corona più cara d'Europa: il salasso di Buckingham Palace
Le cifre contenute tra quelle pagine scottano come sigilli di ceralacca sul velluto: centocinquanta milioni di euro l'anno, più del doppio di qualsiasi altra monarchia europea. Mentre gli olandesi si appagano di cinquantadue milioni e i norvegesi di ventisette e Felipe di Spagna, con consorte e figliole al seguito, costa meno di un'autostrada provinciale di modesta ambizione, la corona britannica persevera nelle sue consuetudini con una fedeltà che sfiora il commovente. Non che manchi di tradizioni a cui aggrapparsi; ma alcune, bisogna ammetterlo, pesano. Non sullo spirito della nazione, beninteso.
Proprio sulle finanze dello Stato e sulle terga dei contribuenti, sempre meno inclini alla venerazione di una monarchia afflitta da contrattempi assortiti. Così, stando alle stime dei repubblicani - attivissimi, sebbene sistematicamente ignorati - tra le varie voci di spesa si annoverano undici membri della stirpe ancora stipendiati per esercitare funzioni di rappresentanza nel Paese e nel mondo. Ma la parte leonina del bilancio è divorata dalla sicurezza: una cifra oscillante tra i 170 e i 230 milioni di euro annui. Non stupisce che quel discolaccio di Harry - sempre lui, oibò - abbia ingaggiato una battaglia legale per ottenere la scorta ufficiale del Ministero dell'Interno durante le sue sporadiche visite nel Regno.
Battaglia perduta per effetto di una sentenza che ha stabilito come, non essendo più membro "operativo" della corona, la scorta debba procurarsela di tasca propria. Esattamente come toccò a sua madre, Lady Diana, dopo il divorzio da Carlo. E poi vi sono le "spesucce" varie ed eventuali: cerimonie da orchestrare, gioielli da catalogare con puntiglio archivistico, carrozze da lustrare fino allo specchio, incoronazioni, funerali di Stato… Eventi che si susseguono come le maree, inevitabili e sempre un tantino più dispendiosi del preventivato.
Insomma: a Buckingham Palace, sentenzia Baker, il denaro evapora con la medesima naturalezza con cui Camilla rinnova il cappellino per gli impegni ufficiali. Una transustanziazione fiscale di mirabile costanza. Il Palazzo, dal canto suo, ha sempre rassicurato i contribuenti con la metafora del caffè solubile: "Costa quanto una tazza a testa". Peccato che il caffè solubile sia, per definizione, una bevanda di ripiego, qualcosa che si ingurgita quando difettano il tempo o l'alternativa e che lascia in bocca quel retrogusto di malinconia domestica. La spending review tanto sbandierata da Carlo - già decimata dalla fuga americana di Harry e Meghan e dal pensionamento coatto di Andrea, cancellato dall'albo araldico con un tratto di penna rossa - non ha nemmeno scalfito la voce di bilancio.
Che, anzi, è lievitata del cinquantatré per cento in un anno. Gli analisti parlano di maggiore trasparenza, di nuovi accordi sui profitti generati dai beni della corona. Altri, meno inclini all'ottimismo contabile, vi scorgono soltanto un conto che si dilata laddove lo Stato arranca come un cavallo da tiro sul selciato. Insomma, mentre le altre monarchie europee si sono tramutate in istituzioni sobrie, popolate di nuovi borghesi che lavorano e conducono esistenze decorosamente anonime, i Windsor resistono con i fasti intatti come ai tempi del Principe Reggente Giorgio IV, continuando a muoversi in questa coreografia di splendore e fatture, osservati da un mondo che non sa più se applaudire devotamente o, più prosaicamente, aggiornare il budget. Perché la grandeur, si sa, ha sempre avuto un prezzo. E alla fine il conto qualcuno dovrà pur pagarlo.