Sono ormai passati 50 anni da quel 24 gennaio del 1975 allorché la città di Colonia, nel cuore dell’allora Germania Occidentale, vide materializzarsi un suono destinato a diventare leggendario e a trascinare l’etichetta ECM – con sede in un’altra grande città tedesca, Monaco di Baviera e sotto la sapiente guida di Manfred Eicher – verso i fastigi del mercato discografico di massa. E per giunta per un genere, il jazz d’avanguardia, di solito alieno al gusto delle masse. Fu semplicemente una sorta di congiunzione astrale che vide il pianista Keith Jarrett distillare da un pianoforte in condizioni non ottimali una memorabile sequenza di armonie e melodie, destinata a incidere a lungo nella successiva storia della musica jazz e non solo. Questo concerto, registrato al Teatro dell’Opera di Colonia, diede vita a un album, The Köln Concert, che avrebbe venduto quattro milioni di copie, più di qualsiasi album jazz, ammesso che si tratti di solo jazz. Non a caso fu usato anche – a dire il vero con una certa parsimonia – in colonne sonore cinematografiche, come Il lenzuolo viola (Bad Timing: A Sensual Obsession) di Nicolas Roeg (1980); Pianoforte, opera prima di Francesca Comencini (1984); Caro diario di Nanni Moretti (1993).
Ben pochi hanno poi osato cimentarsi con la ri-esecuzione di tale concerto, al di là dello stesso Jarrett. Tra costoro un posto d’onore lo occupa sicuramente Gilda Buttà, solista capace di muoversi felicemente sulla linea di confine tra ambiti musicali diversi, nonché tra le poche interpreti in grado di reggere il cimento con un capolavoro del genere. Siciliana di Patti in provincia di Messina (dove è nata nel 1959), ha compiuto gli studi musicali al Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano, diplomandosi a soli sedici anni, con lode, sotto la guida di Carlo Vidusso. Gilda Buttà si è distinta per una lunga carriera concertistica che l’ha portata a suonare per le più importanti istituzioni, sia come solista sia in formazioni da camera, in Italia e all’estero. Vincitrice di vari concorsi pianistici a livello nazionale fin da giovanissima, nel 1976 si è aggiudicata il premio “Franz Liszt” e ha iniziato un’intensa attività dal vivo, tenendo concerti in Europa e in Asia. Dedita ai più svariati stili, è passata dalla musica contemporanea alla sperimentazione e alla contaminazione di vari generi, sviluppando un ampio e completo repertorio. Per quasi trent’anni ha collaborato con Ennio Morricone, per numerose produzioni discografiche e vari concerti, fino a tutte le colonne sonore (tra di esse, non si può non citare La leggenda del pianista sull’oceano, film diretto da Giuseppe Tornatore in cui la Buttà ha suonato i brani che nella finzione scenica sono eseguiti dai personaggi interpretati dagli attori Tim Roth e Clarence Williams III). Come solista ha collaborato con numerosi musicisti dediti al cinema e alla tv. Ha registrato anche per BMG, Sony, Warner. Era sposata con il grande jazzista Michel Petrucciani ed è attualmente moglie del violoncellista Luca Pincini, con cui ha formato in duo, incidendo l’album Two Skies, con musiche di Rachmaninov, Gershwin, Ferrio. Già docente nei conservatori di Firenze e Pescara, occupa attualmente la cattedra di pianoforte al conservatorio di Frosinone.
«La “follia” di eseguire il Köln Concert di Keith Jarrett – racconta la pianista – nasce da una mia personale necessità e ricerca di repertori nuovi e amati. Questo progetto mi è stato commissionato in periodo di pandemia, quindi di pensieri e necessità musicali. Ho accettato follemente dopo aver visto la partitura edita da Schott ed essermi resa conto che da esecutrice dovevo trovare la mia chiave di lettura. Ho già immaginato gli anatemi che mi sarebbero arrivati addosso da ogni parte, di musicisti di ogni genere e stile, ma la mia vuole essere solo (nel rispetto massimo del creatore e improvvisatore) la voglia e volontà di rendere visibile quest’opera iconica ai musicisti classici, facendola diventare un’opera di repertorio. Inoltre, a ogni rilettura mi ritrovo in un pozzo profondo ed immenso dove ogni certezza viene annullata».
E così sabato 15 febbraio 2025 l’Aula Magna dell’Università di Roma La Sapienza ha ospitato un evento musicale che pochi si sarebbero aspettati: l’esecuzione di The Köln Concert di Keith Jarrett, capolavoro del jazz contemporaneo, affidato alle mani della pianista Gilda Buttà, in quella dimensione quasi cameristica che può competere solo ai classici. Il concerto, inserito nell’ottantesima stagione musicale dell’Istituzione Universitaria dei Concerti, ha attirato un pubblico numeroso e attento, desideroso di rivivere l’emozione di un’opera che ha segnato la storia della musica improvvisata. Non usiamo a caso il termine “improvvisata”, anche se è facile scorgere una sorta di ossimoro: ossia, da un lato la pianista si è attenuta a una partitura, dall’altro lato quando Jarrett “compose” il celebre concerto in realtà sviluppò un’idea e alcuni temi improvvisandoli sulla tastiera. E ciò nonostante il vecchio giudizio di Theodor Adorno, per cui nel jazz classico “la routine non lascia alcun margine all’improvvisazione”. Peraltro, del jazz Adorno considerava di solito solo le manifestazioni più commerciali. E spesso doveva ammettere che esistevano esempi di musica seria molto più semplici di quelli della musica jazz a lui contemporanea, in cui già si poteva avvertire l’influenza delle tecniche compositive novecentesche. Ma per Adorno non era tanto la maggiore o minore complessità a favorire l’ascolto del jazz, bensì la standardizzazione strutturale intorno a cui ruota il materiale musicale stesso e che rende sempre facilmente identificabile, anche sotto la superficie dei dettagli più complicati, lo schema musicale fondamentale. Il grande filosofo francofortese si spinse ad affermazioni insolitamente elogiative, seppur in chiaroscuro, all’interno di un saggio intitolato On Popular Music e pubblicato nel 1941: «Tutte le opere del primo classicismo viennese sono, senza eccezioni, dal punto di vista ritmico più semplici degli arrangiamenti comuni del jazz. Da quello melodico, gli ampi intervalli presenti in molti pezzi di successo come “Deep Purple” o “Sunrise Serenade” sono più difficili da seguire per sé di quanto lo siano la maggior parte delle melodie, per fare un esempio, di Haydn, che restano per lo più limitate a triadi di tonica e ad intervalli di seconda. Dal punto di vista armonico, poi, il repertorio di accordi dei cosiddetti classici è sistematicamente più limitato di quello di qualunque compositore di Tin Pan Alley che si rifaccia a Debussy, Ravel e fonti anche successive. Standardizzazione e non standardizzazione sono le fondamentali categorie contrastanti per comprendere la differenza». Ma per Jarrett sarebbe impensabile parlare di standardizzazione, sicché la parte negativa delle critiche adorniane decade automaticamente. In Jarrett sicuramente non si verifica quel processo per cui l’improvvisazione reale scompare nel processo di standardizzazione per essere sostituita da schemi elaborati in modo quasi prefabbricato. L’improvvisazione jarrettiana coincide con un empito creativo che sfugge a ogni idea di reificazione.
Il concerto si annunciava come un evento di grande interesse per gli amanti della musica jazz e classica. Gilda Buttà ha potuto permettersi di prevedere un programma che coincidesse in toto con The Köln Concert, conscia che ciò avrebbe voluto dire arrischiarsi in una performance che ha fatto la storia della musica improvvisata e che richiede una sensibilità particolare nell’esecuzione, dato che la musica del pianista statunitense è fortemente caratterizzata da un’intima fusione tra interpretazione ed espressione corporea (sospiri, gorgheggi, vocalizzi e brevi accompagnamenti cantati con voce sommessa hanno sempre accompagnato le sue esecuzioni).
Il Köln Concert ha una genesi quasi fortuita e affascinante. Registrato dal vivo il 24 gennaio 1975 all’Opera di Colonia, fu eseguito in condizioni tutt’altro che ideali: Jarrett era esausto per il viaggio e per la notte insonne precedente, e si trovò a suonare con un pianoforte Bösendorfer mal accordato, con tasti rigidi e bassi privi di profondità. Nonostante tutto, o forse proprio grazie a queste difficoltà, il concerto divenne una delle performance più iconiche della storia della musica, un flusso ininterrotto di improvvisazione pura che fonde elementi classici, jazz e persino blues con una liricità e un’intensità senza pari. Per certi versi, la situazione in cui si trovò a suonare Jarrett ricorda quella del compositore classico Olivier Messiaen, il quale, catturato dai tedeschi durante la II guerra mondiale, insieme ad altri prigionieri fu trasferito nel campo di concentramento Stalag VIII-A di Görlitz (al confine Sud-Ovest della Polonia), dove rimase per un anno e dove, con la benevolenza dell’ufficiale responsabile del campo, realizzò il Quatuor pour la fin du temps, usando un pianoforte talmente malconcio che talvolta i tasti, una volta premuti, restavano abbassati.
Gilda Buttà, grazie alla sua indiscussa tecnica e alla parimenti raffinata musicalità, ha eseguito il programma con precisione e rigore, dimostrando un controllo assoluto dello strumento. La nitidezza del suono e la pulizia dell’esecuzione hanno reso giustizia alla complessità tecnica del brano, mettendo in luce la sua straordinaria padronanza del pianoforte. Tuttavia, proprio questa perfezione – ci sembra – ha costituito un limite interpretativo: l’esecuzione del Köln Concert è apparsa eccessivamente inquadrata nella partitura, priva di quel trasporto emotivo e di quelle piccole esternazioni vocali – sospiri, frammenti melodici canticchiati – che caratterizzano le performance di Jarrett medesimo. Il risultato è stato un’interpretazione elegante e controllata, ma distante dall’essenza del jazz, che vive di libertà espressiva e improvvisazione, qui solo appena accennati.
La pianista si è attenuta alla partitura fin dalla prima parte del concerto (I), sviluppando figure di motivi ostinati, che ha suonato con la mano sinistra, commentando, variando e sviluppando anche controfigure con la mano destra. Ha poi giustapposto questi accordi a superfici armoniche tranquille che alternavano in modo appena percettibile due accordi, sui quali ha sviluppato melodie ripetitive. Come ha osservato il biografo di Jarrett, Uwe Andresen, «ciò che Jarrett mette insieme qui in termini di motivi, momenti calmi e istintivi, tensione, rilascio melodico estatico e rilassamento è quasi travolgente. Sembra che non abbia nemmeno bisogno di perseguire un’idea per un certo periodo di tempo».
La parte IIa, invece, è dominata da uno stato d’animo completamente diverso, che ricorda la gioia di vivere e la spiritualità di un canto gospel. All’inizio di questa parte, la pianista ha suonato un ostinato I-IV martellato e ritmicamente accentuato, usando dapprima la mano sinistra, sul quale ha suonato poi con la mano destra un motivo quasi di danza. Il finale scivolava impercettibilmente verso toni patetici, in modo tranquillo, trattenuto, meditativo.
La Parte IIb presenta chiari tratti di elegia, ma culmina in una melodia corale a tre parti con una forza sonora che evoca la solennità della musica delle cattedrali barocche. La parte IIc, infine, può essere intesa come una foglia d’album indipendente e fluttuante; anche questo brano termina in pianissimo. Il critico Peter Elsdon ha sottolineato nella sua analisi del concerto che quest’ultima parte non fu affatto creata sul momento, ma si basò su una melodia dello stesso Jarrett che circolava a Boston, intitolata “Memories of Tomorrow”. La stessa melodia era stata utilizzata anche nel concerto solista di Jarrett a Parigi nel 1970 ed era stata interpretata da lui stesso occasionalmente fin dal 1966. Peraltro, nel concerto fa capolino l’intera storia della musica occidentale (che Jarrett, da enfant prodige, conosceva benissimo), senza che l’ascoltatore quasi se ne renda conto. Nella parte IIb si scorgono ad esempio echi dalla Eleanor Rigby dei Beatles, ma con salti temporali e stilistici possiamo individuare addirittura influenze di Bach, che si alternano con il concerto italiano del primo Settecento e perfino con il canto gregoriano. Talora poi siamo indotti a pensare che Jarrett volesse trasfigurare sui tasti del pianoforte una sorta di salmodia vocale che richiama l’opera classica italiana, immersa però in una sorta di bagno nel blues, secondo i canoni di un impercettibile straniamento.
In conclusione: non si poteva chiedere a Gilda Buttà quell’immedesimazione tra concerto e strumento che riuscì allo stesso Jarrett in un momento particolare, quasi di stato di grazia. La Buttà ha mantenuto un approccio più misurato, tipico della tradizione classica, rendendo la sua esecuzione più formale che spontanea. Un punto di merito è stato l’omaggio finale al repertorio classico con due bis: un brano dal Clavicembalo ben temperato di Bach e un pezzo di Chopin. Qui, la Buttà ha ritrovato pienamente il suo terreno d’elezione, regalando momenti di raffinata bellezza e di grande intensità espressiva, dove il suo tocco elegante e la sua sensibilità interpretativa hanno potuto esprimersi al meglio. Il pubblico ha certamente apprezzato la brillantezza tecnica della performance, ma chi conosce a fondo il Köln Concert ha avvertito la mancanza di quel senso di urgenza e abbandono che lo rende così straordinario.
Sapienza Università di Roma
IUC – Istituzione Universitaria dei Concerti, per il ciclo Calliope
Gilda Buttà, pianoforte: The Köln Concert (Keith Jarrett -1975)
Part I – 26:01
Part II a – 14:54
Part II b – 18:13
Part II c – 6:56
15 Febbraio 2025
17:30 - 19:30
Aula Magna Rettorato La Sapienza
Piazzale Aldo Moro, 5, Roma, 00185
Fabio Venturi regia del suono