Esteri

Onu: Netanyahu difende il suo operato, davanti ad un'aula semivuota

di Diego Minuti
 
Onu: Netanyahu difende il suo operato, davanti ad un'aula semivuota
Unicuique suum: a ciascuno il suo. Ed il suo di Israele, per Benjamin Netanyahu, è un futuro in cui il Paese non  debba temere per l'incolumità della sua gente e, per questo, combatte oggi, pronto a farlo domani e doman l'altro.

Certo, davanti ad un'aula delle Nazioni Unite che si è svuotata delle delegazioni dei Paesi arabi e di quelli che dissentono, con giustificata fermezza, dagli eccessi di Israele (che dovrà rispondere, alla Storia ed alla sua coscienza, delle sofferenze inflitte ai civili nella Striscia di Gaza),  il primo ministro ha fatto un intervento, per così dire, sin troppo colorito, arricchendolo con effetto speciali, mutuati dal suo mentore alla Casa Bianca. 

Ma cosa ci si poteva, realisticamente, da chi dice di lottare per la sopravvivenza della sua gente? 

Benjamin Netanyahu ha fatto quello che il suo ruolo gli imponeva: parlare di Israele come di un Paese sotto assedio che, per questo, non può negarsi alcuno strumento per difendersi o, come nel caso di Gaza City, per attaccare, uniformando indiscriminatamente nella categoria dei bersagli quelli effettivamente cercati  - i miliziani di Hamas - e chi, in quello che resta della città, ormai ridotta a cumuli di macerie, è testimone innocente, ma anche passivo.

I toni usati da Netanyahu sono stati quelli scontati, alzandoli quando s'è trattato di raccontare quel che Israele ha passato, abbassandoli quando, obtorto collo, ha dovuto toccare tangenzialmente gli effetti della spaventosa risposta militare agli attacchi di Hamas, che ha comunque giustificato sostenendo che altrimenti non si poteva fare. Perché ancora, anche se le teste dell'idra sono state tagliate, altre sono pronte a rigenerarsi. 

Appunto tutto scontato, ma non meno d'impatto, almeno giornalistico, posto che nessuno, dopo averlo sentito, muterà il giudizio sul primo ministro d'Israele e su come egli intenda la soluzione del ''problema Gaza City''. 

Di certo, Netanyahu confida molto sulla saldezza del rapporto con gli Stati Uniti e, soprattutto, con Donald Trump, che lo tratta talvolta alla stregua di un eroe biblico, alle prese con gli equivalenti contemporanei dei Filistei, altre volte come un bambino discolo che fa cose che la ragione gli dovrebbe impedire. 

Come la minacciata annessione della Cisgiordania (candeggiata dai rappresentanti, nel governo israeliano, dell'estrema destra e dai referenti della frangia messianica dei coloni), come tassello finale del cordone sanitario che, steso intorno al territorio ''ufficiale'' di Israele, ne dovrebbe garantire la sicurezza.

Per il resto, l'intervento di Netanyahu non ha fornito un elemento, che sia uno, che lasci intendere che le politiche muscolari di Israele possano attenuarsi. In questo, da un punto di vista pratico, Bibi ha avuto vita facile utilizzando il grimaldello morale dell'orrore del 7 ottobre per giustificare la risposta militare, che però ora è altro.

Perché, dall'altro lato, non ci sono formazioni organiche, ma cecchini che si celano tra i civili, coinvolgendo questi ultimi nella rappresaglia.

Lo Stato di Israele, comunque, dopo l'intervento odierno di Netanyahu esce politicamente indebolito, sia sul fronte internazionale (dove cresce il numero dei Paesi che stanno riconoscendo la Palestina), che su quello interno, dove l'opposizione al suo governo di estrema destra si sta compattando sul fronte non del pacifismo tout court, ma della necessità che il Paese esca dal pantano di una guerra che sta logorando, oltre a pretendere un prezzo altissimo, dal punto di vista di vite, ma anche economico. 
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