Era il respiro che si rompe sulle labbra, una fragola che non è solo frutta, un paravento che nasconde tutto ma svela l’essenziale. Era il 1986 quando uscì, e sconvolse un’intera generazione. Perché 9 settimane e ½ non si guardava: si desiderava. Un film che non mostrava corpi, ma accendeva fantasie; che non cercava di scioccare, ma di sedurre lentamente, come una carezza che indugia un secondo di troppo. Altro che insipide sfumature di grigio e beige, o tutorial su TikTok e piattaforme dove la sensualità si riduce a un tariffario mensile: qui si parlava di eros autentico, viscerale, scomodo, senza safe word. Lui, Mickey Rourke, in tutto il suo splendore da maschio alfa in camicia aperta e sguardo predatore, lei, Kim Basinger, la musa perfetta tra la fragilità e il fuoco. E poi Joe Cocker che sibila strisciante “You can leave your hat on”, una mela che rotola sul pavimento e un paravento dietro cui si scioglie ogni inibizione. Ma ahimè, il tempo è una bestia crudele. E se Elizabeth McGraw usciva di scena in lacrime dopo nove settimane e mezzo di passione, noi oggi ci troviamo, quarant’anni dopo, a contemplare lo stesso John Gray (alias Rourke) intento a entrare… nella Casa del Grande Fratello VIP. Versione britannica. Dove l’erotismo è morto, sepolto, e rimpiazzato da confessionali e nomination.
Già, Mickey. L’uomo che faceva sognare il mondo ora sfoggia una parrucca più rigida della sua espressione facciale (il botox non perdona), e si accomoda sul divano di un reality sperando di non confondere la regina Elisabetta con Patsy Palmer. Ma procediamo con ordine, perché ogni tragedia degna di questo nome merita i suoi atti. In origine fu l’ascesa del dio pagano. Siamo negli anni Ottanta, e Mickey Rourke era l’uomo che ogni donna voleva e che ogni uomo voleva essere. Un misto esplosivo di sensualità e pericolo, un talento selvaggio tenuto a malapena a freno da un sorriso sornione. Era l’antieroe perfetto. Hollywood gli offriva ruoli su un piatto d’argento: Rusty il Selvaggio, Angel Heart, Johnny Handsome. Lui però, da vero spirito ribelle, rifiutava Rain Man, Platoon e persino Gli Intoccabili. Perché? Perché era Mickey, baby. Poi, come ogni star dell’eccesso, decide di mollare tutto per diventare pugile professionista. A 38 anni. Così, per sport. Letteralmente. E lì comincia la metamorfosi, ma non quella poetica da bruco a farfalla. Più una parabola inversa: da adone cinematografico a un personaggio da Tim Burton, con il volto tumefatto dai colpi e rattoppato da chirurghi che probabilmente avevano conseguito la laurea in una fiera itinerante. E così giungiamo all’atto secondo: la caduta degli dei a suon di botulino. Dopo il ring, il nulla. Hollywood lo mette in lista nera, i registi non lo vogliono, gli agenti lo dimenticano, lui si infuria con tutti e si perde in un vortice di auto-sabotaggio così spettacolare che persino Icaro gli direbbe: “Hey, amico, hai esagerato”. Nel frattempo, il suo volto diventa terreno di guerra tra filler e silicone, finché neanche lui riesce più a riconoscersi allo specchio. Ma attenzione: sotto il trucco, sotto le cicatrici e il pentimento, resta ancora un briciolo di quel talento che, nel 2008, lo riporta in auge con The Wrestler. Un film dolorosamente autobiografico, dove interpreta un uomo rotto che cerca una via d’uscita. Un Oscar mancato, ma una standing ovation meritata.
E poi? Poi il silenzio. O meglio: i reality. E siamo all’atto terzo: l’età del trash. Oggi Mickey ha 72 anni, 3,8 milioni di sterline in patrimonio (giusto il necessario per una vacanza a Capri con due barboncini e un parrucchiere personale), e un contratto a sei zeri per entrare nella Casa del Grande Fratello UK, in compagnia di ex stelle cadenti, drag queen in ascesa e politici in cerca di redenzione televisiva. Per l’occasione ha sfoggiato una nuova acconciatura che definire “posticcia” è un atto di gentilezza, e si è immortalato con amici in quel di Liverpool, gridando al mondo un entusiastico “LIVERPOOL forte” su Instagram. Non proprio la calligrafia poetica di un uomo tormentato, ma tant’è. I produttori sperano che faccia scintille: che racconti aneddoti scabrosi, che perda le staffe, che si tolga la parrucca a favore di camera. Qualsiasi cosa che faccia impennare gli ascolti. Ma temono anche il peggio: che se ne vada prima del tempo, come fece con The Masked Singer, quando si auto-eliminò in una gloriosa implosione di noia. L’epilogo di questa tragedia (si fa per dire ovviamente, ché le tragedie vere sono altre) è che ad oggi, Anno Domini 2025, Mickey Rourke è una reliquia vivente. Un mix di rimpianto e resistenza, un’anima selvaggia intrappolata in un corpo che sembra uscito da un museo delle cere. Eppure, in mezzo alla malinconia, c’è qualcosa di profondamente umano nella sua parabola. Ha confessato di aver perso tutto: la casa, la moglie, i soldi, la carriera. Di aver pianto al telefono con l’ex, di essere stato mantenuto dagli amici, di aver sborsato 45.000 sterline in terapia per rimettersi in piedi. Ha detto di aver toccato il fondo. E poi, lentamente, di aver risalito la china. Forse, leviamo il forse, non tornerà mai più a essere il John Gray che ci ha fatto arrossire dietro il divano dei genitori. Forse, leviamo il forse, oggi è solo un uomo in cerca di applausi, anche se provengono da uno studio TV e non da una sala cinematografica. Ma sotto strati di botox, dentro quella parrucca improbabile, vive ancora un brandello di leggenda. E noi, ironici e nostalgici spettatori della sua caduta, non possiamo fare a meno di ricordare che 9 settimane e ½ sono bastate a scolpirlo nella memoria collettiva. Il resto, è solo reality.