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I am Ilary: il reality che non ti aspetti (e forse nemmeno lei)

di Barbara Leone
 

Ammettiamolo: il mondo della cultura pop non era pronto per un tale capolavoro di vuoto esistenziale. Cinque episodi da mezz’ora, intensi come una passeggiata al centro commerciale di domenica. Il titolo stesso è un colpo basso alla nostra intelligenza: I am Ilary. Della serie, per chi non l’avesse capito, io so’ io e voi eccetera eccetera. Il resto? Il nulla cosmico: un  mosaico di momenti quotidiani che oscilla tra il surreale e l’inutile. Perché se Unica offriva almeno il brivido del gossip da copertina sulla fine della coppia Ilary-Totti, qui abbiamo un improbabile festival del “Ilary fa cose (a caso)” con la spontaneità di una chat di gruppo su WhatsApp dopo due bicchieri di vino.

Cominciamo con un’epifania domestica: Ilary possiede più divani di un qualsiasi showroom di Poltrone e Sofà. La sua casa è un monumento all’arredamento ipertrofico, con un divano semicircolare grande quanto un campo da calcetto (per restare in tema). Qui, insieme alle sue sorelle Mellory e Silvia (un nome che sembra caduto lì per sbaglio accanto a Ilary e Mellory), si lascia andare a dialoghi illuminanti e momenti di alta poesia domestica. Tra i grandi highlight, troviamo l’ex letterina che consulta un cartomante e si iscrive a un corso di “coccole” per scoprire il suo lato empatico. Spoiler: lato empatico non pervenuto, ma in compenso Ilary e un’amica si divertono a prendere in giro i partecipanti con la grazia di due coatte in libera uscita. E a proposito di coattese, parliamo un attimo di “romanità. Perché deve esser chiaro: esiste una differenza abissale, che il resto d’Italia ignora, tra romanesco e coattese. E no, tutte quelle espressioni che ci hanno resi famosi – tipo monnezza, mortacci tua, o a ‘na certa – fanno parte del coattese, non del romanesco. E questa differenza va capita, perché altrimenti “er romano” continua a essere visto come un volgare personaggio che comunica solo con “aho”. La verità? La romanità che viene esportata è spesso becera e iperbolica, ma non rende affatto giustizia a chi di romano ha cuore, sangue e radici che sono, giusto per citare i più noti, i versi di un Belli o di un Trilussa.

Ma torniamo al “docucoso”. Nel nome della “sfida con se stessa” (una scusa che andrebbe brevettata), Ilary si lancia persino dal paracadute. Una metafora esistenziale di rara potenza, che però non riscatta lo spettatore dal trauma visivo. A seguire, incursioni culinarie sotto la guida di chef Ruben (se possibile, uno più coatto di lei) e una pedalata con Nicola Savino, che con piglio professionale le illustra le famigerate “due C”: una è collo, l’altra fate voi! Ma il vero apice, in questa epopea surreale, si raggiunge con l'iscrizione a criminologia. Sì, avete capito bene: Ilary Blasi, tra un tuffo nel vuoto e una sessione di coccole empatiche, ha deciso di abbracciare il mondo del crimine... dal lato investigativo, s'intende. Una scelta che lascia il pubblico tra lo sbalordito e l'ilarità, specialmente quando si apprende che, una volta conclusi gli studi (sigh), Ilary intende mettere da parte lip gloss e pailettes per indossare il cappello di una seria criminologa. Roberta Bruzzone, occhio: la concorrenza sta arrivando, ed è armata di una determinazione spiazzante e, magari, di qualche trucco di contouring. La motivazione di questa decisione? Ilary la spiega con candore: il suo amore per… Chi l’ha visto?.

Ilary Blasi torna su Netlix

 Un’argomentazione che, nella sua semplicità quasi poetica, sembra sufficiente a giustificare l'ambizione di intraprendere una carriera che, diciamolo, non è proprio per tutti. Ma lei, con la consueta leggerezza, non si lascia scoraggiare. E così affronta il test d’ingresso, un esame di tale complessità che include domande degne di un quiz per bambini (tipo “Qual è la capitale degli Stati Uniti?”). In questo scenario da asilo nido accademico, Ilary sfodera un exploit che farebbe arrossire Sherlock Holmes. Il vero spettacolo, però, è la sua disinvoltura: dà del tu ai professori con la naturalezza di chi ordina un caffè al bar, trasformando l’intera scena in una sitcom brillante. Mancava solo una risata registrata in sottofondo per completare l’opera. E mentre lei scherza e brilla di una spontaneità quasi studiata, resta una certezza: se davvero diventerà criminologa, sarà sicuramente la più glam del settore. Sorprendentemente, scopriamo poi che la sua serie e il suo libro sono stati tradotti addirittura in giapponese. La cultura nipponica, tradizionalmente seria e rigorosa, sembra aver abbracciato questa bizzarria con entusiasmo inspiegabile. E così Ilary vola a Tokyo e aggiunge un cameo alla sua carriera cinematografica, recitando – udite udite – se stessa. Il repertorio di battute? Ovviamente, parolacce. Non manca il lato sentimentale: accanto a Ilary c’è Sebastian, il suo nuovo compagno tedesco, che non parla italiano ma padroneggia con disinvoltura le parolacce di cui sopra. La loro comunicazione è un mistero degno di uno studio linguistico. Però, a giudicare dalla complicità, è evidente che abbiano trovato un codice tutto loro. 

Come detto all’inizio, I am Ilary è il nulla cosmico. E nessuno lo mette in dubbio. Ma è un nulla che ha una sua coerenza. Perché, a differenza di molte altre, Ilary non si è mai venduta per ciò che non è. Lei è così: grezza, ignorante, e felice di esserlo. Ed è proprio questa onestà che alla fine, in qualche modo, la rende simpatica. Del resto ha sposato uno che ha fatto i soldi rincorrendo (bene, per carità) un pallone in mutande. E però lei è la prima a definirsi coatta. Non come tutte quelle altre che sono finte da capo a piedi e si credono questo cavolo vestito a festa. Anche perché, famo a capisse per dirla come direbbe lei, Roma non è LA Roma. E vivaddio, aggiungo. Poi, non dimentichiamo il contesto. Perché quando Totti faceva il provolone con Noemi (e chissà con quante altre), tutta Roma taceva. Lui era intoccabile: il re, er Pupone per grazia divina. Poi Ilary, che decide di prendersi un caffè con un tipo o di rifarsi una vita, diventa il bersaglio di un’intera città. E qui sta la vera ingiustizia. Alla fine, Ilary si è presa i suoi colpi, ma ha continuato a camminare a testa alta approfittando anche (e perché no?) di tutta l’eco mediatica arrivata con le sue corna! Poi sì: c’ha i soldi per iniziare tre guerre mondiali, ma guardandola con la nonna di 92 anni in macchina o con le amiche d’infanzia – che non sono famose, non fanno le influencer, e non hanno un brand di creme – capisci che, sotto tutto, Ilary è rimasta quella di sempre. E questo, nel mondo dello spettacolo, è quasi rivoluzionario. Meno rivoluzionari sono, ahilei, i suoi zigomi: mettici un altro po’ di filler, e vedi che voli. Altro che paracadute! E però anche in questo, è fedele a se stessa: esagera, ma non si prende mai sul serio. Insomma, se cercate un documentario culturale o una riflessione profonda, cambiate decisamente canale. Ma se avete voglia di ridere e di spegnere il cervello per mezz’ora, I am Ilary fa il suo lavoro. Perché a volte, il nulla è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.

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