Economia

Ddl Bilancio, Tarquini (Confindustria): "manca sostegno a investimenti. Servono misure coraggiose"

di Redazione
 
Il Direttore Generale di Confindustria, Maurizio Tarquini, è intervenuto in audizione presso le commissioni riunite bilancio di Camera dei Deputati e Senato della Repubblica sul Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2025 e bilancio pluriennale per il triennio 2025-2027.

L’economia italiana è in sostanziale stallo: i recenti dati ISTAT mostrano una crescita pari a zero nell’ultimo trimestre, con un’ulteriore contrazione dell’industria e a fronte, invece, di una moderata crescita dei servizi.

Il deludente andamento economico estivo lascia inalterata al +0,4% la variazione del PIL acquisita per il 2024, rendendo improbabile la crescita al +1% prevista dal Governo e difficile quella al +0,8% stimata dai principali previsori, incluso il nostro Centro Studi.

Preoccupa soprattutto l’andamento della produzione industriale, che è caduta di un -7,4% negli ultimi 24 mesi, cioè agosto 2024 su agosto 2022, facendo registrare una variazione tendenziale negativa da 19 mesi consecutivi.

Queste evidenze si inquadrano in una dinamica molto debole dell’Eurozona. Non a caso, la stessa parola, cioè “stallo”, è stata utilizzata non più tardi di venerdì scorso dalla Presidente Lagarde per descrivere lo stato di salute dell’economia europea. L’area euro, dalla fine del 2019 alla metà del 2024, ha visto una crescita del PIL del +3,4, raffrontata a un +10,7 degli Stati Uniti e a un +22,8 della Cina.

Per l’Italia - ma anche per il resto dell’UE - preoccupa soprattutto la crisi tedesca, poiché, com’è noto, le interdipendenze tra le due economie sono molto forti. Ricordiamo che, nonostante l’ampio processo di diversificazione realizzato dalle imprese italiane negli ultimi anni, l’export verso la Germania pesa per quasi il 12% del totale di beni esportati. Tuttavia, le vendite italiane in Germania sono in calo da due anni: -5,6% nei primi otto mesi del 2024 sullo stesso periodo 2023 e -7,2% complessivo rispetto allo stesso periodo del 2022.

A questo si aggiungono gli ulteriori vincoli, stavolta di matrice regolamentare, provenienti dall’Europa e legati soprattutto al Green Deal. Normative come l’ETS, il CBAM e quella sul taglio delle emissioni nel settore automotive rappresentano pesanti fattori di incertezza. Ciò soprattutto perché non è chiaro se, e quando, l’inerzia delle politiche messe in campo dalla precedente Commissione, che valutiamo corrette negli obiettivi ma troppo penalizzanti nella loro declinazione, verrà invertita.

Questa situazione genera un rischio che è nostro dovere evidenziare: perdere base produttiva, inducendo le imprese, che oggi - molto più che in passato - non hanno particolari vincoli su dove insediarsi, a farlo fuori dall’Italia, se non addirittura fuori dall’Europa.

Perdere base produttiva, per via di delocalizzazioni o cessazioni di attività, non è un problema per la sola industria, ma per il Paese, perché senza industria non c’è lavoro, ma anche perché, con essa, verrebbe meno la componente più vitale della nostra economia, quella che innova e che compete sui mercati internazionali e che contribuisce in modo determinante all’export, al positivo saldo commerciale e al nostro sistema di welfare.

In questo contesto, il nostro auspicio era, e rimane, di una Manovra incisiva, con una visione di politica industriale e un impulso deciso sugli investimenti, per non disperdere, ma anzi consolidare, quello slancio che l’economia italiana ha saputo mostrare in anni recenti.

Al momento, però, il testo oggetto dell'audizione, e che Confindustria auspica venga migliorato durante il percorso parlamentare, non offre risposte adeguate ai problemi e ai rischi sopra segnalati. E ciò soprattutto perché non appare in grado di invertire quella tendenza a livelli di crescita da zero virgola, che, con l’eccezione della fase post pandemica, ha caratterizzato la nostra economia negli ultimi 25 anni.

Apprezziamo, e riteniamo sia un valore da preservare, l’attenzione posta sui conti pubblici, in coerenza con un quadro di politica fiscale volto a centrare gli obiettivi fissati dal recente Piano Strutturale di Bilancio (PSB).

Il punto è, però, che nella Manovra sono sostanzialmente assenti il sostegno agli investimenti e alle imprese che li realizzano. Ciò tenuto anche conto di due fattori: l’abrogazione dell’ACE avvenuta lo scorso anno, cioè del principale strumento di sostegno alla patrimonializzazione delle imprese; il lento avvio del Piano 5.0, anche per via di stringenti regolamentazioni europee, pur destinato a specifiche forme di investimento.

In quest’ottica, i soli interventi degni di nota sono quelli di proroga e rifinanziamento del credito d’imposta per gli investimenti nella ZES Unica, cui si affiancano il rinnovo del credito d’imposta per la quotazione delle PMI e il rifinanziamento della “Nuova Sabatini”.

Questo breve elenco andrebbe integrato, partendo da alcune priorità: le risorse per i contratti di sviluppo - misura agevolativa strategica per il sostegno agli investimenti produttivi - e quelle per la ricerca industriale, con particolare riferimento agli accordi di innovazione, cioè il principale strumento a selezione per sostenere i progetti di ricerca applicata delle imprese; nuovi stanziamenti servono poi per la partecipazione delle imprese italiane agli IPCEI (grandi progetti di interesse europeo), l’unico strumento utile a finanziare la ricerca di frontiera e la prima industrializzazione.

E a proposito di ricerca, vogliamo, da un lato, ribadire la strategicità di uno strumento come il credito d’imposta R&S e, dall’altro, sottolineare che riconoscere un modesto - e tuttora indefinito - contributo in conto capitale a chi ha aderito alla procedura di riversamento spontaneo non risolve il vero problema, cioè la perdurante assenza di un quadro certo per individuare le attività agevolabili; d’altro canto, i termini per il riversamento - pur prorogati a più riprese - non sono risultati adeguati a dotare le imprese di una certificazione delle attività, aderendo a una procedura resa operativa solo a luglio scorso. In definitiva, la nuova misura appare orientata soprattutto a indurre le imprese ad aderire per recuperare risorse, piuttosto che a risolvere la situazione critica, specie di alcuni settori come la moda, legata anche a indicazioni ministeriali modificatesi nel corso del tempo.

Anche con riferimento al Mezzogiorno, che ha rappresentato un fattore di vitalità per la nostra economia negli ultimi anni, al venir meno - dal 2025 - di decontribuzione Sud si affianca sì la creazione di un fondo quinquennale, che ne conferma gli obiettivi, cioè ridurre i divari di sviluppo e occupazione al Sud. Tuttavia, la nuova misura, che andrà concordata con l’Europa, ha connotati incerti e che andranno ben coordinati proprio con quelli del credito d’imposta sugli investimenti nella ZES Unica.

In modo analogo, la Manovra necessita di essere rafforzata sul versante dell’accesso al credito. Si tratta di un ambito - connesso a quello degli investimenti e - il cui andamento, negli ultimi anni, è stato penalizzato per via degli alti tassi d’interesse.

Ferma la necessità di proseguire nel percorso in atto teso a riportare - dopo l’ampliamento necessario per fronteggiare la crisi pandemica - a un livello fisiologico le garanzie statali, la priorità è rendere strutturale la riforma del Fondo di Garanzia per le PMI, in scadenza a fine anno. Si dovrà, di conseguenza, provvedere al suo rifinanziamento, stimato in circa 200 milioni di euro, una cifra non esorbitante, per mantenere l’attuale operatività del Fondo nel 2025. Ricordiamo che il Fondo è una misura vitale per le imprese e senza la quale la stessa proroga della “Nuova Sabatini” rischia di rivelarsi poco utile. In prospettiva, andrebbe poi valutato un rafforzamento del ruolo del Fondo a supporto della crescita economica.

Le considerazioni appena svolte, e le proposte di intervento formulate, sono poi avvalorate da un ulteriore dato. Per raggiungere gli obiettivi programmatici di finanza pubblica del PSB, e quelli di spending review del PNRR, la Manovra impone alcuni tagli alle spese dei Ministeri. Quello di competenza del MIMIT ammonta a circa 1,3 miliardi di euro nel prossimo triennio: in gran parte, si tratta di risorse poste a copertura di misure per la competitività delle imprese, che rischiano di venir meno.

A questi tagli si aggiunge quello del cd. fondo automotive per gli anni 2025/2030. Tale fondo, la cui dotazione ammonta nel quinquennio a circa 5,8 miliardi di euro, ha lo scopo di sostenere programmi di sviluppo industriale, finanziare progetti di ricerca e incentivare la domanda di veicoli a basse emissioni. Il DDL ne dispone la riduzione per circa 4,6 miliardi, senza alcun confronto preventivo con gli operatori del settore.

La filiera dell’auto, che vede nella componentistica un’eccellenza della nostra manifattura, ha vissuto un crollo negli ultimi mesi, con livelli di produzione tornati a quelli di inizio 2013, e un -26% a luglio 2024 rispetto allo stesso mese dell’anno scorso (quella degli autoveicoli è scesa del 34%). Riteniamo, quindi, che almeno una parte di quelle risorse debba essere recuperata, per sostenere l’offerta nella delicata sfida della transizione e non, invece, per potenziare la domanda, linea che ha dimostrato nel recente passato di non essere efficace.

E in tema di transizioni, l’energia continua a rappresentare un fattore di svantaggio competitivo per le imprese italiane, per via dei prezzi pagati per gas ed elettricità, più alti rispetto a quelli francesi e tedeschi, nonché dei paesi extraeuropei. La Manovra non fa registrare interventi significativi, mentre sarebbe opportuno prevedere un finanziamento alla ricerca sui nuovi vettori nucleari. Ciò, peraltro, in linea con quanto indicato nel PSB, vale a dire l’intenzione del Governo di promuovere lo sviluppo del nucleare di nuova generazione, cioè di una filiera altamente tecnologica, valorizzandone il potenziale per la competitività del nostro sistema industriale.

Per quanto concerne, invece, l’intonazione della Manovra, non possiamo non rilevare come essa, in alcuni passaggi, appaia troppo intrusiva nelle dinamiche d’impresa.

Ci riferiamo soprattutto alle disposizioni che introducono per società, enti, organismi e fondazioni che ricevono contributi a carico dello Stato l’obbligo di integrare la composizione del collegio di revisione o sindacale con un rappresentante del MEF. In sede di prima applicazione, la soglia di significatività dei “contributi” è fissata in 100 mila euro annui. Una previsione analoga, sebbene dall’ambito applicativo ancor più dubbio, impone un tetto ai compensi degli amministratori pari al 50% di quello che spetta al primo presidente della Corte di cassazione.

La finalità di questi interventi sarebbe di garantire più efficienza della spesa pubblica, favorendone l’efficacia allocativa. Tuttavia, l’imposizione di un sindaco o revisore di nomina ministeriale all’interno delle imprese presenta almeno due ordini di problemi: è una misura del tutto sproporzionata e che denota un’eccessiva diffidenza verso le imprese; non considera che le principali norme di incentivazione sono già soggette a forme di monitoraggio, che spesso comportano oneri molto significativi a carico delle imprese stesse.

Evidenziamo, quindi, la necessità di eliminare questa misura.

D’altro canto, giova ricordare che già all’epoca della redazione del Codice civile del 1942 il Legislatore abbandonò l’opzione di imporre un membro di nomina pubblica all’interno degli organi di controllo societari: farlo oggi significherebbe contravvenire a qualunque logica moderna di governance capitalistica, orientata a principi di mercato.

Passando alla componente più propriamente fiscale del DDL Bilancio, rileviamo anzitutto come le misure di sostegno al reddito assorbano una quota consistente delle risorse, cioè 17,7 miliardi sui 30 complessivi.

In questo ambito, l’intervento più significativo, che pur con alcuni caveat Confindustria apprezza, riguarda la riduzione strutturale dell’imposizione fiscale per i redditi di lavoro dipendente fino a 40 mila euro, che vale quasi 13 miliardi. Essa sostituisce e migliora la misura temporanea di taglio del cuneo contributivo sperimentata negli ultimi anni.

Il contributo alla domanda interna che tale intervento potrebbe generare, tanto più rilevante alla luce delle evidenze richiamate in premessa, rischia però di essere vanificato dal parallelo riordino degli oneri detraibili, previsto per i contribuenti con reddito complessivo superiore a 75 mila euro.

Si tratta di una sorta di taglio lineare, che si applicherebbe a ogni detrazione d’imposta prevista nell’ordinamento (al netto delle spese sanitarie), colpendo anche misure che costituiscono un sostegno indiretto per alcuni settori economici. Inoltre, riducendo la capacità di spesa di coloro che maggiormente sono in grado di contribuirvi, esso rischia di produrre effetti negativi sulla domanda. Sottolineiamo, peraltro, come non sia possibile - dalla lettura della Relazione tecnica - verificare quanto questo taglio alle detrazioni pesi sui saldi di finanza pubblica e, quindi, neppure quantificare l’innalzamento del cuneo fiscale sul lavoro per i contribuenti sopra i 75 mila euro di reddito annui.

A proposito di imposte, la rimozione di ogni limite di fatturato per l’applicazione di quella sui servizi digitali finisce per colpire non più solo i cd. giganti del web, ma anche piccoli e medi operatori italiani, generando uno svantaggio competitivo per il sistema Paese, in danno della transizione digitale.

Svantaggio competitivo è l’esito che constatiamo anche se guardiamo alla Manovra dal punto di vista della filiera delle life sciences, trainante per la nostra economia e per gli investimenti esteri in Italia.

Infatti, nel contesto di un incremento della dotazione del Fondo sanitario nazionale, scelta condivisibile e che però si configura con certezza per il solo 2025, il DDL Bilancio trasferisce d’imperio dalle imprese farmaceutiche ai grossisti una percentuale sul prezzo di vendita al pubblico dei medicinali, con l’effetto di un taglio netto dei ricavi, che equivale a un aumento della pressione fiscale su queste imprese del 6%. Per questo, chiediamo l’eliminazione della misura, che peraltro neppure apporta benefici al bilancio pubblico.

Inoltre, la Manovra non affronta il tema del payback, anch’esso molto negativo per la crescita degli investimenti nel Paese. Per la farmaceutica, ad esempio, continuerà a crescere, raggiungendo nel 2025 i 2,3 miliardi di euro. È una misura dannosa per entrambi i settori su cui agisce, farmaci e dispositivi medici, e sulla quale da tempo chiediamo una soluzione.

Spostandoci su un altro versante, quello del lavoro e della previdenza, le misure non presentano elementi di particolare novità, né di impatto strutturale significativo, sia sul sistema di welfare, sia sui processi di transizione industriale in atto. Si tratta di interventi perlopiù in continuità con quelli delle precedenti Leggi di bilancio e che seguitano a connotarsi come temporanei e funzionali perlopiù a fronteggiare situazioni contingenti.

In questo contesto, è positiva la conferma del dimezzamento - dal 10% al 5% - dell’aliquota dell’imposta sostitutiva sulle somme erogate ai dipendenti sotto forma di premi di risultato o di partecipazione agli utili. Apprezzabile soprattutto la valenza triennale dell’intervento, che potrà fornire alle imprese un orizzonte stabile per le politiche retributive.

Per rafforzarlo, riteniamo che vada superato il limite del requisito incrementale da raggiungere ogni anno per accedere all’agevolazione, riconoscendola anche nelle ipotesi in cui l’impresa confermi gli stessi obiettivi di produttività del biennio precedente. Il beneficio, in termini di flessibilità applicativa, si produrrebbe comunque a vantaggio di lavoratori che hanno già contribuito al raggiungimento degli obiettivi aziendali nelle precedenti annualità, e, su un piano più generale, del welfare aziendale.

Inoltre, apprezziamo particolarmente il fatto che, accogliendo una proposta di Confindustria, il DDL introduca una detassazione delle somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro - entro il limite di 5.000 euro annui - ai dipendenti, per il pagamento dei canoni di locazione. La misura riguarda i titolari di reddito non superiore a 35.000 euro annui e che abbiano trasferito la residenza oltre un raggio di 100 chilometri.

Si tratta del primo step di quel Piano per l’abitare sostenibile di cui Confindustria ha inteso farsi parte attiva e propositiva e che concretizza un impegno delle imprese per affrontare un problema molto sentito in diverse aree del Paese; problema che, da un lato, contribuisce alle difficoltà nel reclutare manodopera e, dall’altro, rappresenta un vero e proprio fattore di disagio sociale per ampie fasce della popolazione.

In tal senso, è altrettanto positivo che il DDL contenga una norma programmatica in base alla quale, con successivo DPCM, verrà approvato un piano nazionale per l’edilizia residenziale pubblica e sociale, denominato “Piano casa Italia”. Tale Piano sarà dedicato al rilancio delle politiche abitative a supporto di persone e famiglie e punterà, tra le altre cose, a individuare modelli innovativi di governance e finanziamento dei progetti, razionalizzando l’offerta abitativa disponibile. Si tratta di una misura che può rappresentare la cornice per realizzare il Piano allo studio di Confindustria; in quest’ottica, sarebbe importante esplicitare che, per farlo, sono necessari interventi di semplificazione urbanistica ed edilizia, di matrice finanziaria, specie garanzie volte a favorire anche l’afflusso di risparmio privato, e fiscali.  

Prima di concludere, vorremmo tornare a soffermare l’attenzione sul punto da cui hanno preso le mosse le nostre riflessioni, vale a dire l’esigenza di un deciso impulso agli investimenti e alle imprese che li realizzano.

Da un lato, torniamo a ribadire la necessità degli interventi di rifinanziamento e delle puntuali correzioni sopra proposte.

Dall’altro, riteniamo che occorra dare un segnale forte per le imprese italiane, gli investitori esteri e gli osservatori internazionali, col chiaro obiettivo di rendere più attrattivo il Paese.

Ci riferiamo a un sistema premiale per chi decida di continuare a fare impresa in Italia, investendo, e per chi decida di spostare sull’Italia i propri capitali per produrre. È il momento di essere coraggiosi, disegnando un meccanismo di IRES premiale: un taglio significativo, nell’ordine di 5 punti percentuali - per essere competitivi in Europa - dell’aliquota applicabile alle imprese che trattengano utili, così da consolidarsi patrimonialmente, e che effettuino determinate tipologie di investimenti, rilevanti sul piano del rafforzamento competitivo, specie nell’ottica delle transizioni, delle nuove assunzioni e del welfare aziendale.

Si tratta di un disegno già tracciato nella legge delega fiscale - e che abbiamo apprezzato nella sua impostazione generale - cui occorre ora dare pronta attuazione.

Siamo consapevoli del principale ostacolo a questa proposta, vale a dire i vincoli di bilancio, conseguenti anche al PSB. Tuttavia, riteniamo che già solo nelle pieghe della Manovra vi sia spazio per una diversa, e a nostro giudizio più produttiva, composizione degli interventi.

Ad esempio, dei 17,7 miliardi stanziati per gli interventi di sostegno al reddito, ben 4,8 sono riconducibili a due misure, vale a dire l’accorpamento da quattro a tre degli scaglioni di reddito rilevanti a fini IRPEF e il taglio delle detrazioni per i redditi superiori a 75 mila euro annui. Misure che, nel primo caso, apporteranno un contributo poco significativo e, quindi, poco percepibile per i soggetti interessati e che, nel secondo caso, rischiano di produrre - per i motivi già evidenziati - effetti macroeconomici negativi.

Anche gli interventi di sostegno al reddito che sostituiscono il taglio del cuneo contributivo potrebbero essere rimodulati, per destinare risorse ad altri capitoli e limare ulteriormente alcuni effetti distorsivi di disincentivo al lavoro. Da nostre simulazioni, in questo modo si potrebbero recuperare circa 1,7 miliardi di euro.

E non dobbiamo dimenticare che ogni anno destiniamo solo il 50% dei proventi delle aste ETS alla finalità prevista dalle norme europee, cioè la transizione energetica. Si tratta di circa 1,7 miliardi di euro sottratti alla competitività delle imprese.

In questi anni, il Paese è stato posto spesso, e continua a essere, di fronte a un bivio. La scelta è tra tornare a essere un propulsore di innovazione, di progresso, di opportunità per le giovani generazioni di migliorarsi e migliorare le condizioni di benessere ereditate da quelle che le hanno precedute.

Oppure, declinare verso l’immobilità, la rendita, verso modelli di economia di prossimità spesso a basso valore aggiunto se non affiancati al “motore” di un’industria tecnologicamente avanzata e competitiva nel mondo. Avvertiamo la necessità e l’urgenza di segnali chiari e di misure coraggiose.

Per il bene dell’Italia, delle sue imprese e dei suoi lavoratori.
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