Burning Buzz
Campione rosicone
di Benedetta Lagatta
Quanto più in alto sali, tanto più piccolo ti vede l’occhio dell’invidia… E niente, sembra proprio che Friedrich Nietzsche avesse previsto tutto. Perché, diciamocelo, non c’è spettacolo più avvilente – e al contempo irresistibile – di una vecchia gloria che si aggira con il naso arricciato davanti ai successi dei giovani. È quello che sta accadendo con Nicola Pietrangeli, leggendario tennista italiano e capitano della squadra che vinse la prima (e per decenni unica) Coppa Davis per l’Italia nel 1976. Una vera icona, certo, ma ultimamente più incline al ruolo di opinionista nostalgico con sprazzi di acida superiorità. Dopo il trionfo di Jannik Sinner, Matteo Berrettini e compagnia cantando (pardon, palleggiando) a Malaga, che hanno portato a casa l’Insalatiera per la seconda volta consecutiva, Pietrangeli non ha resistito a rilasciare una serie di dichiarazioni che sanno più di rosicamento d’annata che di analisi lucida: “È stata una bella emozione, ma non è che abbiano battuto chissà quale avversario”. Ah, certo, perché battere squadre come gli Stati Uniti, l’Argentina e l’Australia è praticamente come giocare al torneo del bar sotto casa. Non pago, il buon Nicola ha proseguito con una carrellata di giudizi che fanno il paio con quelle conversazioni al bar del tipo “eh, ma il calcio di una volta era un’altra cosa”. Le partite di Berrettini? “Bruttissime, ma bellissime per il risultato”. Il gioco di Sinner? “Quando sai già di partire con un punto di vantaggio, giochi più tranquillo”. Insomma, tutto facile per questi ragazzi che, a quanto pare, sono stati solo fortunati a trovarsi nel tennis dell’era digitale.
Nicola Pietrangeli e i commenti sulla vittoria della Coppa Davis
E qui emerge il vero dramma: Pietrangeli sembra proprio incapace di accettare che il tennis sia cambiato. Sì, Nicola, adesso si gioca con racchette ipertecnologiche, non con quegli arnesi che sembravano fatti con il legno dell’albero di Natale. Sì, oggi la velocità del gioco è impressionante, e no, non ci sono più le mitragliatrici, ma i cannoni. E sì, forse tu avresti faticato a starci dietro. Ma, detto tra noi, è ora di fare pace con il tempo che passa. La parte più divertente, si fa per dire, di questa saga è che Pietrangeli riesce a dire tutto questo con l’aplomb di chi si sente comunque superiore. Non si capisce bene se sia consapevole del fatto che, così facendo, non fa altro che alimentare l’immagine del vecchio campione che non riesce a lasciare il palco ai giovani. Sembra quasi che l’unico motivo per cui l’Italia ha vinto sia che gli avversari fossero scarsi, o che il tennis moderno sia troppo banale. Aplomb sì, ma sempre da vecchio rosicone. Perché alla fine della fiera non basta qualche battuta sull’epoca delle mitragliatrici per cavarsela con stile.
Anzi, sembra quasi che la leggenda del tennis italiano voglia ricordarci che, sì, oggi si vince, ma ai suoi tempi (aiuto, aiuto!) si faceva con più eleganza, più fascino, più… tutto. E allora viene da chiedersi: ma non era lui il primo a dire che “l’importante è vincere”? Perché ora sembra più concentrato a sminuire i risultati che ad applaudirli. A onor del vero, però, il buon Pietrangeli ha pure ragione su un punto: il tennis italiano sta vivendo una sorta di glorificazione esagerata. Jannik Sinner è un fenomeno, ma non è che dobbiamo farne il salvatore della Patria. Anzi, non sarebbe male ricordare che, come carisma, siamo ancora nel territorio della glaciazione. Berrettini, simpatico, ma non proprio un trascinatore di folle. E poi Pietrangeli, che di simpatico aveva giusto il talento in campo. Panatta? Idem, ma con l’aggiunta di un sarcasmo che ancora oggi non si è affievolito. Insomma, sembra che il tennis italiano abbia un vizio congenito: essere forte, ma scorbutico. Né va tralasciato, sempre per onor di verità, che difficilmente il record di Pietrangeli in Coppa Davis potrà essere eguagliato, con le sue 164 presenze complessive e 120 vittorie. Così come i suoi anni d’oro, fatti di finali e di quell’unico trionfo nel 1976, resteranno scolpiti nella storia. Ma forse è proprio questo il punto: la storia va lasciata lì, senza sentirsi minacciati dal futuro. Perché, alla fine, non c’è niente di male nell’essere ricordato come un campione, ma c’è molto di peggio nell’essere ricordato come un campione che non sapeva applaudire. Quindi, Nicola, rilassati: nessuno ti toglierà mai il tuo posto nella leggenda. Ma lascia che i giovani si godano i loro trionfi. E magari, quando è il caso, prendi esempio da loro perché, come dice il proverbio, fino alla bara sempre s’impara. E anche perché pure i cannoni, ovviamente intesi in senso metaforico quali racchette da tennis perché gli altri ci fanno orrore, possono infondo avere il loro fascino.