Cultura
Addio a Ornella Vanoni, indomita signora della musica italiana
di Barbara Leone

Era una donna impossibile da incasellare, libera e ribelle quanto bastava per non chiedere il permesso a nessuno. La sua personalità, elegante ma anche istintiva, capace di farsi selvaggia quando serviva, ha attraversato l’evoluzione dell’Italia stessa, dal dopoguerra fino all’era dei social, dove era amatissima da generazioni molto diverse tra loro. Quella voce così particolare aveva un magnetismo tutto suo, sensuale eppure distante, sempre attraversata da una vena di nostalgia che la rendeva irripetibile. Con Ornella Vanoni, morta per un malore improvviso nella sua casa di Milano all’età di 91 anni, non scompare solo un pezzo di storia della musica italiana, ma una donna che ha attraversato decenni e mode senza mai perdere la sua identità.
Cresciuta in una famiglia borghese milanese e costretta dai bombardamenti a passare da un collegio all’altro, Ornella non immaginava ancora che la sua strada non sarebbe stata quella dei piccoli sogni di una ragazza timida con problemi di acne, ma un palcoscenico. Nel 1953 torna a Milano e il destino smette di girare in tondo. Entra all’Accademia del Piccolo Teatro, dove Giorgio Strehler la nota, la guida, la ama e la tormenta.
Il loro è un legame intenso, creativo e disordinato, il primo capitolo di una vita sentimentale sempre in bilico tra passione bruciante e fuga istintiva. Intanto l’Italia faticava a togliersi di dosso le rigidità del dopoguerra e Vanoni diventava già qualcosa che non c’era: una figura magnetica, moderna, scandalosa nel senso più nobile del termine. Le “canzoni della mala”, scritte anche da Dario Fo, la posero al centro di un racconto nuovo, fatto di vicoli, furti e perdenti.
Lei, con quella voce ruvida e sensuale, sembrava comprenderli uno per uno, offrendo al Paese una narrazione che nessuno aveva mai osato portare sulla scena. Poi arrivarono gli anni Sessanta, l’epoca che avrebbe cambiato tutto. Tenco incrociò la sua strada, ma fu Gino Paoli a lasciare il segno più profondo, nella vita e nell’arte. Senza fine, scritta per lei, non fu solo un successo, fu un varco spalancato verso la televisione e verso Sanremo, dove Ornella si muoveva con la sicurezza di chi sa che il proprio posto è lì. L’appuntamento resta tutt’oggi uno dei brani più iconici della musica italiana, esempio perfetto di come la sua voce trasformasse una melodia in un territorio emotivo.
E mentre la stampa insisteva nel costruire la solita rivalità con Mina, lei proseguiva dritta per la sua strada, tornando da Paoli negli anni Ottanta per Insieme e per un tour che fotografava una cultura musicale in trasformazione. La loro storia, raccontata mille volte, non aveva bisogno di alcuna aggiunta. A metà anni Settanta arrivò la svolta che le cambiò la carriera: la musica brasiliana.
Il progetto con Toquinho e Vinícius de Moraes, La voglia la pazzia l’incoscienza l’allegria, fu una rivoluzione gentile che la liberò dai cliché e la consacrò come interprete matura e contemporanea. Poi arrivò il jazz e con lui collaborazioni prestigiose, come quella con Herbie Hancock, che contribuirono a costruire un’immagine più complessa, elegante e sinuosa. Negli anni successivi, mentre l’Italia cambiava e nuovi linguaggi avanzavano, Ornella rimaneva una presenza costante, sempre curiosa e sempre pronta a rimettersi in discussione.
E però Vanoni non è stata solo un mito della musica italiana. È stata un simbolo di libertà femminile e di ironia pungente, fino alla fine. Ha proposto un’idea completamente nuova di invecchiare e a Che tempo che fa faceva impazzire Fazio perché ogni sua frase era un colpo di genio. Con Colapesce e Dimartino ha scompaginato con naturalezza l’immagine della diva severa, cantando Toyboy come se fosse la cosa più naturale del mondo. E guardava ai giovani con curiosità, mai con paternalismo. Forse è per questo che oggi resta quella sensazione sospesa, simile a quando finisce un concerto e non si capisce se sia davvero calato il sipario. Perché, in fondo, Ornella Vanoni resta, e resterà, in quell’idea semplice e rivoluzionaria che l’arte, quando è autentica, non chiede il permesso di esistere.