Attualità

25 aprile: l'alba della libertà

Barbara Leone
 
25 aprile: l'alba della libertà

All'alba del 25 aprile 1945, il Nord Italia si sveglia in uno stato di febbrile attesa, sospeso tra l’eco della violenza e la speranza di una rinascita. Nelle strade ancora in penombra, non regna il silenzio, ma il suono metallico dei colpi di fucile, il clangore improvvisato delle barricate che sorgono come funghi d’urgenza, le voci concitate dei giovani del GAP e dei S.A.P., le formazioni partigiane urbane, che si preparano a un giorno decisivo.

25 aprile: l'alba della libertà

È l’inizio dell’insurrezione generale, già proclamata nei giorni precedenti. Bologna è stata liberata il 21 aprile, Genova è insorta il 23, Torino il giorno successivo. Ora tocca a Milano, cuore nero del regime, capitale morale della Resistenza. Alle otto del mattino, la Storia riceve la sua cesura definitiva. Dagli studi della radio “Italia Libera”, la voce del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia – il CLNAI, presieduto da Alfredo Pizzoni e composto dai rappresentanti delle forze antifasciste (PCI, PSIUP, DC, Pd’A, PLI) – annuncia la presa del potere a nome del popolo italiano. Il proclama è semplice e terribile nella sua lapidarietà: “Arrendersi o perire”.

È una dichiarazione di guerra, l’ultima e decisiva, contro ciò che resta dell’apparato nazifascista. È l’atto con cui il potere, per la prima volta dopo vent’anni, torna a sorgere dal basso, dalla volontà dei cittadini armati di coraggio e di dignità. Scrive Ferruccio Parri in quei giorni: “Non abbiamo delegato la libertà: ce la siamo presa”. Non si attende l’arrivo degli Alleati, che pure avanzano dal Sud, ma si agisce: la parola d’ordine è “liberazione autonoma”.

Nel frattempo, in una Milano scossa dal rumore dei fucili e dallo sciopero generale, Benito Mussolini comprende che il cerchio si è definitivamente chiuso. Nella sede della Prefettura, ha luogo un incontro teso, quasi teatrale, tra il Duce, alcuni esponenti del CLNAI e il cardinal Schuster, che si fa mediatore d’un’impossibile trattativa. Mussolini vorrebbe una resa “onorevole”, un passaggio incruento dei poteri, ma riceve un secco rifiuto.

La sua parabola si è infranta sulla durezza della realtà. Verso mezzogiorno, con pochi uomini fidati, lascia la città a bordo di un’auto diretta verso Como. Da lì tenterà di raggiungere la Svizzera e congiungersi con le truppe tedesche in ritirata. È una fuga disperata e inutile: pochi giorni dopo sarà catturato a Dongo e giustiziato. Ma già la sua partenza da Milano assume un valore simbolico potentissimo: la città che lo aveva accolto e incoronato, ora lo espelle come un corpo estraneo.

Il primo pomeriggio, tra le tredici e le sedici, è l’ora in cui la fiamma della Resistenza divampa pienamente. I partigiani escono dai nascondigli, dai rifugi, dai boschi; avanzano per le strade in assetto di guerra, puntano i fucili verso i presidi fascisti, conquistano uno dopo l’altro i punti nevralgici della città. In viale Monte Santo si combatte duramente; presso la sede della RSI, le ultime sacche di guerriglia fascista vengono sopraffatte. La Prefettura, la sede del “Corriere della Sera”, la stazione centrale: tutti i simboli del potere vengono occupati dai patrioti. È un pomeriggio di sangue e di gloria, in cui la città si riscatta, metro dopo metro, grazie all’impeto di uomini e donne comuni, spesso giovanissimi.

Come scriverà il partigiano Giovanni Pesce: “Quel giorno, ogni muro, ogni vicolo, ogni finestra era un pezzo della nostra battaglia”. Ma il fervore non è solo a Milano. A Torino si susseguono gli assalti ai punti chiave; a Venezia i reparti garibaldini e azionisti si contendono le caserme e la stazione radio; a Genova, dove l’ammutinamento dei marinai tedeschi ha accelerato la resa, il Comitato di Liberazione assume ufficialmente l’amministrazione della città prima ancora dell’ingresso alleato. È un fenomeno simultaneo, diffuso, radicato: una insurrezione popolare in senso pieno, in cui le città si liberano da sole, riconquistando sé stesse. Nel tardo pomeriggio, la trasformazione è visibile a occhio nudo. Le finestre si colorano di tricolori, spesso cuciti a mano con vecchie stoffe, e le campane delle chiese, che il regime aveva fatto tacere, si mettono a suonare a festa. Le stesse piazze che avevano ospitato i comizi del Duce, le adunate oceaniche e i paramenti littori, ora si riempiono di una folla diversa: vocianti, abbracciati, cantano “Bella ciao” e sventolano bandiere.

I partigiani, stanchi e armati, vengono accolti come liberatori. Qualcuno piange, qualcuno ride, molti non credono ancora che sia vero. Si cammina tra le macerie, si rientra a casa, si cerca un volto, una notizia, un abbraccio. I CLN locali assumono i primi incarichi amministrativi, spesso improvvisati. Ma è chiaro a tutti che si è voltata pagina.

La sera cala sul Nord Italia con un velo di emozione e incertezza. L’atmosfera è irreale: sospesa tra l’esultanza e la consapevolezza che la guerra, seppur finita nelle città, infuria ancora altrove. I tedeschi, in ritirata, sono ancora armati e pericolosi. Di Mussolini non si sa più nulla. È una notte nuova, che respira in modo diverso. Dopo vent’anni di oppressione, per la prima volta non si teme il colpo secco del coprifuoco che cala come una condanna; nessuno attende più, col cuore in gola, il passo cadenzato di una ronda tra i vicoli oscuri; non si odono più, dai ricevitori gracchianti delle radio di regime, le voci stentoree e sinistre dei gerarchi. Il silenzio che scende è un silenzio dolce, leggero, non più carico d’inquietudine ma colmo di possibilità. È il primo vero respiro di un’Italia libera.

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