Sono arrivate ieri da Washington alcune dichiarazioni più favorevoli dopo il forte calo del dollaro di lunedì, innescato dai commenti del presidente Trump sul presidente della Fed Powell, che non hanno fatto altro che rafforzare i rischi per il dollaro USA nel prossimo futuro. Trump sembra però fare in parte marcia indietro, forse rendendosi conto del potenziale danno arrecato, e i suoi consiglieri potrebbero avergli suggerito di adottare una comunicazione più equilibrata. La sua ammissione di non avere intenzione di licenziare Powell ha per ora contribuito a fermare la caduta del dollaro.
La questione chiave ora, per il dollaro e per il sentiment verso gli asset statunitensi in generale, è che la soglia di ciò che Trump potrebbe fare si è ormai spostata, dopo l’annuncio dei forti dazi reciproci del 2 aprile – un’escalation che nessuno aveva previsto nemmeno negli scenari peggiori. Di conseguenza, un accordo per la svalutazione del dollaro o il licenziamento di Powell non appaiono più così irrealistici. Il calo del dollaro ha ora raggiunto proporzioni storiche: le vendite consistenti sono iniziate a inizio febbraio in risposta al rinvio dei dazi su Canada e Messico e all’introduzione del primo dazio del 10% sulla Cina. Da allora (dal 3 febbraio a lunedì, 55 sedute di borsa), il dollaro USA (DXY) ha perso il 10,7%. Dall’epoca del Plaza Accord nel 1985, il dollaro ha registrato un calo maggiore nello stesso arco di tempo solo in tre occasioni: durante lo shock inflazionistico globale fino a gennaio 2023; la crisi di fiducia delle imprese statunitensi nel 2002; e il periodo successivo al Black Monday del 1987. Si tratta quindi di un crollo di proporzioni storiche, e la perdita di fiducia è tale da richiedere tempo e sforzi considerevoli per essere recuperata.
È comprensibile che gli investitori pensino che l’amministrazione non abbia la volontà di cambiare rotta e impegnarsi per ripristinare la fiducia. Oltre alla dichiarazione di Trump sull’intenzione di non licenziare Powell, ci sono altri due scenari che potrebbero favorire un recupero del dollaro. Il primo sarebbe l’annuncio rapido di accordi commerciali significativi con alcuni partner chiave: ad esempio, Giappone, Regno Unito e India. Ciò contribuirebbe a rafforzare le aspettative che molti Paesi siano esclusi dai dazi reciproci nel breve termine. Gli accordi bilaterali sono però generalmente complessi e richiedono negoziati approfonditi, rendendo difficile credere che questo scenario si concretizzi rapidamente.
Il secondo scenario riguarda una dichiarazione pubblica da parte del presidente Trump e/o di altri funzionari di alto livello in cui si affermi chiaramente che l’amministrazione non sostiene né sosterrà una politica di indebolimento del dollaro. Anche se, ovviamente, contano più i fatti delle parole, una tale affermazione potrebbe aiutare almeno nel breve periodo.
Un altro sviluppo degno di nota riguarda un possibile dietrofront da parte degli Stati Uniti nei confronti della Cina. Bloomberg ha riportato ieri che il Segretario al Tesoro Scott Bessent, in un evento a porte chiuse, avrebbe affermato che lo stallo tariffario tra Stati Uniti e Cina è “insostenibile” poiché, con questi livelli di dazi, esiste di fatto un embargo commerciale tra le due maggiori economie mondiali. Egli prevede dunque una de-escalation e l’avvio di negoziati. Anche Trump ha contribuito a calmare i toni dichiarando ieri che sarà “molto gentile” con la Cina e che i dazi potrebbero essere ridotti “in modo molto sostanziale”. È sempre difficile prevedere le mosse di Trump, ma Bessent ha ragione nel ritenere che la situazione non sia sostenibile. Le dimensioni del movimento del dollaro lasciano spazio a un’eventuale estensione del rimbalzo qualora queste voci di distensione si rafforzassero. Tuttavia, è probabile che gli investitori restino cauti, e in molti sensi, il danno è ormai fatto, il che implica che qualsiasi recupero del dollaro sarà probabilmente breve e relativamente contenuto.

EUR: Macron valuta elezioni parlamentari quest’anno
Secondo quanto riportato ieri dai media, il presidente francese Emmanuel Macron starebbe valutando la possibilità di indire nuove elezioni parlamentari già entro la fine dell’anno. Dopo le elezioni di luglio scorso, non è possibile tenere nuove elezioni prima di dodici mesi, il che ha disincentivato i partiti di opposizione dal far cadere l’attuale governo di minoranza. Ma questa situazione cambierà da luglio, rendendo le elezioni possibili.
Macron potrebbe ritenere che il contesto politico sia ora a suo favore, il che potrebbe aiutarlo a ottenere la maggioranza e riportare maggiore stabilità in parlamento. Con il ritorno di Trump sulla scena politica, la leadership europea sarà fondamentale per tutelare gli interessi del continente, e Macron si è imposto come il politico europeo più visibile in questo ruolo. Inoltre, la condanna di Marine Le Pen per appropriazione indebita potrebbe aver indebolito il supporto per il Rassemblement National. Anche il suo probabile successore, Jordan Bardella, ha registrato un calo nei sondaggi.
Come per le elezioni dell’anno scorso, una nuova tornata elettorale sarebbe però una scelta rischiosa. Dopo la nomina di François Bayrou a primo ministro, si è registrato un periodo di relativa stabilità e, se tale stabilità dovesse proseguire, è probabile che nuove elezioni non saranno ben viste dai mercati finanziari.
Negli ultimi tempi è stato evidente il potenziale per l’Europa di beneficiare della perdita di fiducia negli asset statunitensi. Lo spread OAT-Bund è rimasto relativamente stabile, con i Bund che hanno sovraperformato i Treasury statunitensi, e si è registrato un aumento della domanda di debito dell’area euro. I dati del Ministero delle Finanze giapponese mostrano che, nel saldo dei pagamenti di febbraio, gli acquisti combinati di obbligazioni di Germania, Francia, Italia e Spagna hanno raggiunto il livello più alto (1.604 miliardi di yen) dal marzo 2019. In particolare, l’acquisto di obbligazioni francesi (618 miliardi di yen) è stato il più alto dal giugno 2019.