Ovviamente è un giochino, quello che facciamo, ma siccome ci piace, eccolo qui. Alla cerimonia del giuramento di Donald Trump, nell'ampio salone dove il 47/mo presidente ha recitato la formula di rito, alle sue spalle, tra sodali, compagni di partito, amici e parenti, c'era anche un ristretto gruppo di invitati che si erano guadagnato il pass a colpi di donazioni milionarie per la campagna del tycoon.
E se Donald Trump portasse sfortuna? I miliardari presenti al giuramento hanno perso una fortuna
Milioni di dollari che per loro, come direbbe Totò, sono alla stregua di pinzillachere, perché, di milioni, ne hanno tanti, ma davvero tanti. Quindi, una donazione non ha di certo modificato i loro modelli di vita.
C'è stato un ''però'' che si è messo per traverso sui loro progetti (che potrebbero essere, azzardiamo, magari di diventare ancora più ricchi grazie a qualche legge adottata da Trump, ma la buttiamo lì solo per esempio) perché, guarda il caso, cinque dei miliardari che, impettiti e con sorriso d'ordinanza, hanno assistito al giuramento da quel giorno hanno visto i loro portafogli prosciugarsi, non completamente, ma di quel tanto da giustificare qualche arrabbiatura.
Sono passate sette settimana dal 20 gennaio e la situazione da ''rose e fiori'' è cambiata. Secondo i calcoli di Bloomberg , dal fatidico giorno cinque di loro hanno perso complessivamente 209 miliardi di dollari. Ma, verrebbe da dire che gli è andata di lusso rispetto ai loro azionisti.
Perché le aziende cui stanno dietro i miliardari di cui sopra hanno perso complessivamente più di un trilione di dollari (anzi, per essere precisi, 1,39 trilioni di dollari, in base ai prezzi pre-mercato di martedì) in capitalizzazione di mercato dal 17 gennaio, l'ultimo giorno di contrattazione prima dell'insediamento di Donald Trump.
Nella immaginaria classifica il gradino in cima tocca ad Elon Musk, considerato l'uomo più ricco del mondo con un patrimonio stimato in 486 miliardi di dollari a dicembre, Da quando Trump è tornato ufficialmente alla Casa Bianca, ha perso 148 miliardi. Che, tanto per essere chiari, basterebbero per alcune manovre del governo italiano, e ne resterebbe per il caffè e il cornetto di intere regioni.
Anche densamente popolate, direbbe lo statistico.
Musk sarà probabilmente stato inebriato nel vedere, dopo il voto di novembre, il valore delle azioni Tesla - la sua casa produttrice di vetture elettriche - quasi raddoppiare, forse pensando che ormai il mondo era suo, ma non considerando che ci sono persone sulle quali le sue sparate, oltre a dare fastidio, hanno un effetto strano, inducendole a non comprare più nulla da un tizio che arriva in Europa e dà il suo appoggio a partiti di estrema destra. Forse i consumatori americani non vanno troppo per il sottile, ma in Europa no.
E così i primi due mesi del 2025 hanno visto le vendite di Tesla in Europa dimezzarsi e nella sola Germania - dove certi argomenti, vicini all'ideologia nazista hanno l'effetto dell'orticaria - sono addirittura diminuite del 70 per cento.
Per non parlare della Cina, dove Tesla si sentiva alla stregua di un imperatore, ma che ora è stato scalzato dai produttori locali. Meglio è andata - si fa per dire - a Jeff Bezos che ha visto il contatore dei suoi miliardi andare indietro della bellezza di 29 tacche.
Bezos, dal punto di vista comportamentale, sarebbe forse un caso da studiare perché è passato dall'essere un nemico dichiarato di Trump ad elevarlo al rango di un taumaturgo, definendolo un presidente "più calmo e composto" e dicendosi disposto ad aiutarlo, perché, questa la sua motivazione che con la politica non c'entra nulla, ''ci sono troppe normative in questo Paese".
Lo ha fatto non tanto sganciando denaro (un milione di dollari appena), quanto piegando alla logica trumpiana il Washington Post , che, notoriamente liberal, ora deve pubblicare, nelle sue pagine dedicate alle idee, una posizione più forte a favore delle "libertà personali" e del "libero mercato". Che poi la redazione lo abbia contestato vivacemente, ricordando magari il glorioso passato del quotidiano della Capitale, a lui interessa pochissimo, indicando in senso figurato la porta a chi non condivide le sue idee. Intanto, dal 17 gennaio, le azioni Amazon sono scese del 14%.
Meglio che a Bezos è andata a Sergey Brin, miliardario statunitense di origine russa. Anche lui ha fatto una conversione niente male passando dall'essere un feroce avversario delle politiche sull'emigrazione di Trump a suo convinto sostenitore. A distanza di otto anni, e dopo avere accettato un invito a Mar-a-Lago, ormai la seconda Casa Bianca, Brin ha cambiato completamente il giudizio sul presidente. E anche per lui - zac! -: la mannaia delle perdite delle azioni di Alphabet - in calo di oltre il 7% all'inizio di febbraio - gli ha causato un dimagrimento del suo portafoglio di 22 miliardi di dollari.
Possono brindare a champagne d'annata Bernard Arnault, il re del lusso, e Mark Zuckerberg, al quale, se credessimo alla sfortuna, l'essere passati per caso da Washington nel giorno del giuramento di Trump è costato cinque miliardi a testa.
Per Arnault il presidente è un amico di vecchia data e lui è stato tra i primi a telefonargli quando il non ancora presidente è rimasto ferito in un attentato. Il gruppo del lusso del magnate francese, dal voto di novembre alla fine di gennaio, ha guadagnato il 20 per cento, per poi perdere quasi tutto ad oggi.
Infine Zuckerberg, che sta mostrando al mondo intero una metamorfosi che quella del dottor Jeckyll in mister Hyde sembra quasi un filo di fondotinta. Mentre cambia la sua immagine (dov'è finito il ragazzo che faceva mostra di continenza e disponibilità e che oggi esibisce orologi da 300 mila dollari come simbolo del suo successo?) , Zuckerberg si avvicina sempre di più alla filosofia di Trump. In fondo, dicono quelli ricchi, ''money is or are''.