Cultura

Il potere terapeutico e sovversivo del collage nella mostra londinese sulle identità ricomposte

Redazione
 
Il potere terapeutico e sovversivo del collage nella mostra londinese sulle identità ricomposte

Luglio 1995. Sunil Gupta riceve una diagnosi che gli cambia l'esistenza. Sieropositivo. Quel giorno stesso scatta una fotografia di se stesso: le ginocchia strette al petto, lo sguardo che sfida l'obiettivo con una miscela di paura e ribellione. Più tardi, davanti al suo nuovo computer Apple, l'artista trasformerà quella vulnerabilità in atto creativo: colloca la propria immagine tra le sbarre del ponte M25, come se fosse imprigionato dalla struttura metallica.

Il potere terapeutico e sovversivo del collage nella mostra londinese sulle identità ricomposte

"È stato il giorno in cui la mia vita è cambiata", confessa in un'intervista al Guardian. È da questa testimonianza, raccolta dal quotidiano britannico in un ampio reportage sulla mostra I Still Dream of Lost Vocabularies presso la galleria Autograph di Londra, che emerge il potere terapeutico e sovversivo del collage contemporaneo. Da quella necessità di ricomporre i frammenti di un'identità frantumata nasce Trespass (1992-95), serie che costituisce oggi il fulcro concettuale dell'esposizione curata da Bindi Vora, che riunisce oltre novanta opere di tredici artisti contemporanei interrogando la presunta oggettività fotografica, smontandola pezzo per pezzo come un puzzle da riassemblare secondo grammatiche inedite.

Il termine collage deriva dal francese papiers collés - ritagli di carta incollati su superfici -, tecnica che le avanguardie del primo Novecento hanno elevato a linguaggio espressivo. Ma la curatrice Bindi Vora intende scardinare "l'idea sbagliata che il collage possa essere semplicemente una pratica di copia e incolla", come sottolinea al quotidiano britannico.

L'esposizione abbraccia infatti una pluralità di medium: dagli arazzi dell'americana Qualeasha Wood, che intrecciano autoritratti e riflessioni sull'iperconsumo digitale, ai dipinti stratificati della keniota Jess Atieno, che sfidano gli archivi coloniali dell'Africa orientale attraverso cartoline, mappe e immagini agricole, colmando i vuoti lasciati dall'assenza fotografica. La scultura in legno di sapele dell'aborigena australiana Brook Andrew sovrappone narrazioni queer e memorie coloniali, mentre il fotomontaggio appena commissionato di Henna Nadeem fonde paesaggi e geometrie islamiche in una sintesi visiva che trascende i confini geografici. Sim Chi Yin lavora invece su diapositive di fine Ottocento e inizio Novecento, rielaborando digitalmente scene della Malesia britannica per inserirvi il nonno socialista giustiziato e il figlio nato durante la pandemia: un modo per ricucire le generazioni attraverso l'immaginazione.

L'urgenza politica permea ogni sala della mostra. Il film muto di ventidue minuti firmato da Wendimagegn Belete restituisce dignità visiva ai volti dei combattenti etiopi che si opposero alla colonizzazione italiana tra il 1935 e il 1941, figure cancellate dalla storiografia ufficiale. "Ci sono così tante sfaccettature di queste storie di cui semplicemente non si parla", osserva Vora al Guardian. "Penso che diventi molto importante nel dibattito su cosa viene portato alla ribalta e quali storie vengono marginalizzate". Il collage si configura dunque come strumento per sovvertire lo status quo narrativo.

Kudzanai-Violet Hwami distorce i propri dipinti figurativi con frammenti eterogenei - soggetti classici e religiosi accanto a immagini botaniche tratte dagli album di famiglia - per esplorare la propria identità di donna nera e queer. Glitch e pixelazioni diventano metafore visive dei mutamenti di coscienza nell'era digitale. Sabrina Tirvengadum spinge questa ricerca ancora oltre, abbracciando consapevolmente gli errori generati dall'intelligenza artificiale nei ritratti immaginari dei propri antenati. Nelle sue fotografie dai toni rosa, i familiari esibiscono talvolta sei dita, mentre la scalinata di Aapravasi Ghat - punto d'arrivo a Port Louis per oltre 462.000 lavoratori sfruttati dopo la presunta abolizione della schiavitù - presenta due gradini in più rispetto alla realtà.

"Quello che amo dell'intelligenza artificiale è che mi fa notare gli errori, come nella storia, quando le cose non vanno bene", spiega l'artista, rivelando anche le difficoltà iniziali nel superare i pregiudizi razziali degli algoritmi, incapaci nel 2022 di generare volti che le somigliassero quando digitava la parola "indiano". Le cartografie storiche attraversano l'esposizione come un filo rosso.

Reena Saini Kallat attinge all'esperienza familiare della Partizione indiana per interrogare confini politici e potere dei passaporti, mentre Arpita Akhanda intreccia mappe coloniali e fotografie domestiche per rappresentare il viaggio del nonno attraverso il Bengala Occidentale. Sheida Soleimani, che gestisce un centro di riabilitazione per fauna selvatica, stabilisce un parallelismo poetico tra il proprio esilio politico dall'Iran e la cura degli uccelli migratori feriti. Particolarmente potente risulta il lavoro di Thato Toeba sull'estrazione diamantifera nell'Africa meridionale.

Attingendo agli archivi pubblici, l'artista ha rielaborato le fotografie di Horace Nicholls sulla seconda guerra boera: immagini che immortalavano ossessivamente i cavalli durante massacri e violenze, contribuendo alla cancellazione sistematica dei neri dalla documentazione storica. Il suo "Man on Fire" è carico di doppi sensi: evoca la brutale morte di Ernesto Alfabeto Nhamuave, mozambicano bruciato vivo durante i pogrom xenofobi del 2008 in una township di Johannesburg. Uomini con le mani al cielo in un gesto ambiguo: resa o preghiera. Al centro, il ritratto diffuso dalla famiglia per ricordare Nhamuave non per l'atrocità subita, ma per l'individuo che era stato.

"La fotografia era un ottimo strumento terapeutico", ripete Gupta, e le sue parole risuonano come manifesto dell'intera esposizione. Sul suo Apple dei primi anni Novanta, l'artista aveva assemblato fotografie a bassa risoluzione di poster e graffiti berlinesi: immagini ingrandite di bar gay anni Trenta chiusi dai nazisti, autoritratti e scansioni librarie, esplorando relazioni queer, migrazioni e ansie sull'ingresso britannico in Europa sotto Thatcher. "Tutti i messaggi dell'epoca, molto simili a quelli di oggi, riguardavano l'essere uno straniero in terra straniera", racconta al Guardian.

"Sono qui dagli anni '70 e ho più di settant'anni, ma mi sento ancora precario". Ed è proprio questa precarietà esistenziale a nutrire il collage contemporaneo, trasformandolo da tecnica artistica in necessità antropologica. Come sottolinea Vora, si tratta di "una sorta di conversazione contemporanea" che si spinge "fino a quest'anno", distinguendosi dalle retrospettive storiche dedicate agli artisti degli anni Quaranta e Cinquanta. La mostra diventa così spazio di riconciliazione con archivi lacunosi e narrazioni interrotte, dove gli artisti creano vocabolari quando le parole vengono a mancare. Proprio come Tirvengadum durante la pandemia, quando tornò a Mauritius dopo quattordici anni per fotografare i familiari e scoprire negli album domestici "per la prima volta che aspetto aveva mio nonno".

I Still Dream of Lost Vocabularies - titolo che già nell'evocazione onirica suggerisce la ricerca di linguaggi perduti - rimarrà visitabile presso l'Autograph di Londra fino al 21 marzo, offrendo al pubblico la possibilità di assistere a quella che è forse la funzione più profonda dell'arte: non rappresentare la realtà, ma ricomporla secondo verità più oneste.

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