Giorgia Meloni è tornata in trincea, una condizione dalla quale, da quando ha giurato da presidente del Consiglio, avrebbe dovuto allontanarsi per assumere il ruolo di statista e non più solo di esponente di un partito, sebbene di maggioranza relativa.
Osservatorio politico: sugli avversari - politici e no - si abbatte la rabbia di Giorgia Meloni
Eppure, dal palco di Atreju, la kermesse del movimento dei giovani di Fratelli d'Italia, ha voluto tornare ad indossare le vesti dell'antagonista politica attaccando tutti coloro che non la pensano come lei e allontanando l'immagine, faticosamente costruita, del capo di un Paese intero e non solo di una porzione di esso.
Ma il presidente del consiglio ha scelto la strategia dell'attacco (ma anche del dileggio) e ne ha avuto per tutti, facendo assurgere, nel Pantheon dell'opposizione, anche personaggi oggettivamente lontani dall'essere un icona della sinistra e altri ancora che, per età, esperienze passate di governo, titoli accademici e notorietà al di là dei confini nazionali, meriterebbero rispetto e, se non glielo si accredita, almeno di un ''anonimato'' di facciata. Parliamo di Romano Prodi che, agli occhi del premier, ha avuto l'ardire di dire che lei che è amata dall'estabilishment ''perché obbedisce''.
''Voglio dire a Romano Prodi - ha ruggito Giorgia Meloni - che diverse cose che ha fatto nella sua vita, dalla svendita del'Iri a come l'Italia entrò nell'Euro, passando per il ruolo determinante nell'ingresso della Cina nel Wto, dimostrano che di obbedienza se ne intende parecchio. Da persone come lui abbiamo imparato che obbedire non porta bene né alla nazione né all'Europa, e abbiamo fatto una scelta diametralmente opposta".
I toni usati ieri da Giorgia Meloni (non gli argomenti, che possono anche essere valutati, ma proprio i toni) rimandano ad una concezione muscolare della politica dove non ci sono avversari, ma nemici che, per ciò stesso, devono essere attaccati, contestati, persino derisi. Come se il ruolo di presidente del consiglio possa essere dimenticato quando si dice di tutto e di più contro il bersaglio di turno.
Che può essere indistintamente qualcuno che conta oggi (come Elly Schlein e Maurizio Landini) o che contava molto ieri, ma che mantiene intero il suo prestigio anche solo per essere parlamentare (Laura Boldrini). L'importante è che possa essere l'oggetto di strali, dopo essere stato messo alla berlina, plasticamente, dentro il recinto di Atreju.
Forse si pensava che, passando da un lato all'altro della barricata, Giorgia Meloni riuscisse a metabolizzare il cambio di ruolo, ma non è evidentemente così perché i toni usati, dal palco della kermesse, sono stati da guerra, anzi da battaglia a difesa dell'ultima roccaforte.
La voce alta, ben oltre il sopportabile da corde vocali umane, è stato il segnale della veemenza che il presidente del consiglio ha voluto mettere nel suo intervento, davanti ad una platea che definire adorante è sottovalutativo.
Ma era quello che Giorgia Meloni voleva - applausi e cori da stadio - per ribadire che nessuno riuscirà a cacciarla da Palazzo Chigi, sia esso un partito politico, sia un giudice o un economista.
Lei sta lì senza avere intenzione di arretrare di un millimetro e il riferimento alla coesione del governo è sembrato più un ammonimento agli alleati che una comunicazione agli avversari.
E loro, gli alleati, sono stati allineati e coperti, con Tajani più sornione del solito e Salvini - in collegamento video - che non ha perso l'occasione per parlare del suo processo, che ormai tira fuori anche quando parla di ben altro, dando quasi l'immagine di una rassegnata consapevolezza della leadership meloniana.