Non ce ne voglia Piero Manzoni, ma il paragone della sua discussa installazione (novanta barattoli di latta, come quelli per la carne in scatola, contenenti, a detta dell'artista, escrementi di sua ''produzione'', con tanto di etichetta in quattro lingue e autografo) con il modo con il quale l'esponente di Fratelli d'Italia Giovanni Donzelli ha apostrofato un giornalista a lui inviso era quasi scontato.
''Merda d'artista'' quella di Manzoni, ''pezzo di merda'' di Donzelli.
Caso Donzelli: dopo la "merda d'artista", ecco la "merda istituzionale"
Stessa materia per lo stesso clamore.
Ma qui non possiamo limitarci solo alla volgarità (che Donzelli ha detto non appartenergli) , essendo l'accaduto un segnale non certo positivo per i rapporti che la politica intrattiene con l'informazione.
Il capo della macchina organizzativa di Fratelli d'Italia, vedendo che tra i giornalisti che gli si erano avvicinati per porgli delle domande c'era anche Giacomo Salvini (del Fatto quotidiano, autore del libro che ha svelato i contenuti di una chat interna a FdI), ha detto di non volere parlare ''finché c'è questo pezzo di merda''.
Frase di per sé di inequivocabile spiegazione, trattandosi del giudizio sul fatto che Salvini avesse guardato in casa Fratelli d'Italia attraverso il buco della serratura di una chat privata che, appunto per questo, conteneva giudizi, affermazioni, scomuniche.
Che poi la chat non fosse proprio privata lo conferma il fatto che Salvini vi ha avuto accesso, e senza nemmeno grandi problemi. Ora Donzelli può giudicare l'operato di chicchessia, ma se insulta un giornalista per avere fatto il suo lavoro (con mezzi ritenuti opportuni e non illegali) insulta una intera categoria e non solo il destinatario diretto dell'epiteto, non contestando la fondatezza del contenuto del libro, ma come il materiale relativo sia stato acquisito.
Quindi non il merito delle cose scritte, ma entrando direttamente nelle scelte professionali di un giornalista.
Ma quello di Donzelli, che certo non si è detto pentito, è solo l'ultimo caso che conferma come ormai i rapporti tra politica e informazione (ma è meglio dire tra singoli politici e i media di parte avversa) si siano incrinati, mostrando tutte le crepe di un sistema che assimila le critiche alle offese personali, che devono essere, per così dire, lavate nel sangue.
La stessa storia che ha visto protagonista Romano Prodi - che ha tirato una ciocca di capelli ad una giornalista di una trasmissione di Rete4 che aveva posto una domanda non gradita dall'ex premier - è un indicatore di come la correttezza tra intervistato e intervistatore o, più genericamente, tra politici e giornalisti che magari non la pensano allo stesso modo, ha ormai imboccato una strada che, se non si pone rimedio, rischia di essere senza uscita.
Di certo Prodi, per quello che ha fatto, non intendeva certo fare del male alla giornalista, ma il gesto, in sé, è deprecabile. Quasi che abbia voluto compiere quel gesto per mettere in riga la sua interlocutrice, non ritenendo evidentemente sufficienti le parole.
Cresce, quindi, sempre di più il numero di episodi in cui il politico di turno mostra insofferenza per le domande che gli sono rivolte, di fatto penalizzando non solo il giornalista, ma il diritto dei lettori di conoscere.
Allo stesso modo i giornalisti dovrebbero pensare che una domanda può avere accoglienza diversa a seconda di come la si pone. Perché c'è una bella differenza tra farla con rispetto o solo per provocare una reazione fuori dalle righe.