Economia

Osservatorio Moneyfarm - Futuro in bilico: il 62% degli italiani senza previdenza complementare

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Osservatorio Moneyfarm - Futuro in bilico: il 62% degli italiani senza previdenza complementare

Nei giorni in cui prende forma la Legge di Bilancio 2026 e si riaccende il dibattito sulle possibili misure per rafforzare la previdenza complementare – come l’iscrizione automatica dei neoassunti ai fondi pensione - Moneyfarm, società di consulenza finanziaria con approccio digitale, torna a fare il punto sullo stato di salute del sistema pensionistico italiano e, in particolare, della previdenza integrativa.

A diciotto anni dall’entrata in vigore del “semestre di silenzio-assenso”, che nel 2007 coinvolse più di 5 milioni di dipendenti del settore privato e portò ad un aumento di oltre il 63% nel numero degli iscritti ai fondi pensione negoziali, il secondo pilastro pensionistico fatica ancora a consolidarsi: solamente il 38,8% dei lavoratori dipendenti e il 23,7% degli autonomi risulta iscritto a un fondo pensione; percentuali che si riducono ulteriormente, rispettivamente al 30,5% e al 13,3%, se si considera chi ha effettuato versamenti nell’arco di dodici mesi. Anche l’impiego del TFR come strumento di investimento previdenziale è limitato: tra il 2007 e il 2024 soltanto il 23,8% del TFR generato dalle imprese italiane – in lieve aumento rispetto al 22,2% del 2023 – è stato destinato a forme di previdenza integrativa. Il resto è rimasto nelle aziende (234 miliardi di euro) o è confluito nel Fondo di Tesoreria INPS, che raccoglie il TFR delle aziende con più di 50 dipendenti (105 miliardi). Ciononostante, il Trattamento di Fine Rapporto continua a rappresentare quasi la metà della raccolta complessiva dei fondi pensione (42,5%), confermando come il suo conferimento possa essere una delle principali leve di crescita per la previdenza complementare, una leva che oggi, alla luce delle nuove iniziative in discussione, appare più che mai da rilanciare e valorizzare.

Analizzando più da vicino un campione rappresentativo di cittadini in età lavorativa, Moneyfarm ha calcolato[1] che, degli oltre 31,4 milioni di italiani nati tra il 1961 e il 2000, solo il 37% dispone di un fondo pensione, mentre il restante 63% risulta occupato senza forme di previdenza complementare oppure inoccupato. A livello territoriale, con l’eccezione virtuosa del Trentino-Alto Adige, dove il tasso di adesione alla previdenza integrativa tra i 25 e i 64 anni sfiora il 63%, nessun’altra regione supera la soglia del 50% di lavoratori iscritti a un fondo pensione. In coda alla classifica si trovano Campania e Sicilia, con tassi di adesione rispettivamente del 28,5% e del 28,9%.

Un altro tema rilevante è la disparità di genere, riconducibile non solo al fatto che, in generale, vi siano meno donne che uomini, in termini assoluti, tra gli iscritti ai fondi pensione (39% del totale contro 61%), ma anche al divario occupazionale che continua a penalizzarle. Tra i 20 e i 64 anni, infatti, le donne (58,1%) registrano un tasso di occupazione di 19 punti percentuali inferiore rispetto agli uomini (77,3%), una distanza che inevitabilmente si riflette anche sulla partecipazione alla previdenza integrativa.

La situazione migliore è per gli uomini di età compresa tra i 55 e i 64 anni, dove quasi la metà (48%) ha sottoscritto un fondo pensione, contro il 42% delle coetanee donne. All’estremo opposto, la situazione più critica riguarda le giovani donne tra i 25 e i 34 anni: qui il tasso di adesione crolla al 25,5%, a fronte del 33,2% dei coetanei uomini.

A titolo esemplificativo, dei 4,7 milioni di donne di età compresa tra i 55 e i 64 anni, solo 2,3 milioni sono attivamente parte della forza lavoro, e appena 979.727 possiedono un fondo pensione.

Previdenza complementare al femminile: una priorità

Il gender gap occupazionale e salariale si riflette anche sul valore delle pensioni erogate: nel 2024, le pensioni di anzianità femminili risultano inferiori del 15,4% rispetto a quelle maschili (1.884 euro lordi vs 2.227), mentre per le pensioni di vecchiaia – basate sul raggiungimento dell’età anagrafica, dunque più probabilmente in presenza di carriere brevi o interrotte – la differenza sale al 30,1% (936 euro vs 1.340). Carriere più brevi, stipendi mediamente inferiori, discontinuità contributiva e maggiore longevità rendono la pianificazione previdenziale delle donne una priorità assoluta, in un contesto in cui la previdenza complementare rappresenta uno strumento essenziale per garantire una maggiore sicurezza economica nel lungo periodo.

Oltre che nell’entità dell’assegno pensionistico, il divario di genere si riscontra anche sul piano dei contributi versati: si va dai 120 euro al mese delle lavoratrici 30-34enni con un Piano Individuale Pensionistico, fino ai 315 euro al mese per i lavoratori 60-64enni che versano nei fondi pensione aperti. In generale, il versamento aumenta progressivamente nel tempo per quanto riguarda i PIP e i Fondi Pensione Aperti, mentre nei Fondi Negoziali raggiunge il picco entro i 60 anni, per poi calare. Se si guarda, invece, alle risorse mediamente accantonate ad oggi, si spazia da un minimo di 5.910 euro per i lavoratori uomini 30-34enni che hanno scelto un fondo negoziale di categoria, fino ai 32.260 dei 60-64enni con un fondo pensione aperto.

Sulla base delle risorse maturate fino a oggi, e ipotizzando che i versamenti dei lavoratori continuino a seguire nel tempo le attuali modalità per fascia d’età, è possibile stimare il capitale disponibile al compimento dei 67 anni, assumendo un rendimento degli investimenti pari al tasso d’inflazione. Anche in uno scenario così prudenziale, risulta evidente quanto il fattore tempo sia determinante: iniziare a versare il prima possibile fa la differenza. I trentenni iscritti a un fondo pensione aperto potrebbero infatti accumulare fino a 131.000 euro, mentre l’importo più basso si registrerebbe per le lavoratrici sessantenni con un PIP.

Andrea Rocchetti, Global Head of Investment Advisory di Moneyfarm, ha commentato: “La sostenibilità del sistema pensionistico pubblico è sempre più sotto pressione: spendiamo già oltre il 15% del Pil in pensioni e, tra quindici anni, la quota potrebbe superare il 17%. La combinazione di bassa natalità, ingresso tardivo nel mondo del lavoro e maggiore longevità mette a rischio il patto tra generazioni su cui si regge il welfare italiano. In questo contesto, la previdenza complementare diventa uno strumento imprescindibile. Oggi solo un lavoratore su tre investe sul proprio futuro, ma il tempo è un alleato decisivo: agire subito, sfruttando i vantaggi fiscali e le possibili novità normative, è il miglior modo per garantirsi serenità e mantenere il proprio tenore di vita una volta raggiunta l’età della pensione”.

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