Nel cuore della Polonia, avvolto dalle pieghe della Storia e lambito dalle acque placide della Vistola, il quartiere di Podgórze cela nel proprio tessuto urbano una ferita profonda e indelebile: il ghetto ebraico di Cracovia. Un luogo che, pur tra le architetture di un passato remoto, conserva l'eco di un dramma inenarrabile, uno squarcio nella coscienza dell'umanità che mai potrà essere sanato. Era il 3 marzo 1941 quando le autorità naziste promulgarono una delibera inappellabile: gli ebrei della città, sino ad allora residenti nel quartiere di Kazimierz, dovevano essere trasferiti oltre il fiume, confinati in una porzione angusta di Podgórze, in nome di presunte esigenze sanitarie e di ordine pubblico.
Olocausto, il massacro degli ebrei di Cracovia: la storia di Oskar Schindler
Un esodo forzato, da compiersi entro il 20 marzo dello stesso anno, che segnò l'inizio di una delle pagine più oscure della Shoah. Il ghetto si trasformò ben presto in una prigione a cielo aperto. I suoi abitanti furono suddivisi con fredda efficienza burocratica tra abili e inabili al lavoro: i primi ottennero la famigerata Kennkarte, documento d'identità che garantiva il permesso di uscire dal ghetto per prestare la propria opera nelle fabbriche vicine; i secondi, invece, furono costretti a rimanere intrappolati in un limbo di paura e incertezza.
Ma il peggio doveva ancora arrivare. Tre furono le evacuazioni che segnarono il destino del ghetto: giugno 1942, ottobre 1942 e infine marzo 1943, quando si compì l'atto finale della sua drammatica esistenza. Il 13 marzo 1943, con una precisione spietata, i nazisti attuarono la ''liquidazione'' definitiva. Circa seimila individui ritenuti idonei al lavoro furono deportati nel campo di Płaszów, separati con brutale indifferenza dai propri figlioletti, costretti a un'esistenza di orfani senza speranza. Il giorno seguente, in Piazza della Concordia, ebbe luogo una delle più efferate carneficine della guerra: mille persone furono fucilate sul posto, tra cui anziani, bambini, malati e madri che si rifiutavano di abbandonare i propri figli.
Il resto della popolazione fu deportato verso il tragico destino di Auschwitz. I soldati delle SS perlustrarono poi ogni abitazione del ghetto abbandonato, sparando a chiunque tentasse di sfuggire all’orrore. Questo atto di cieca brutalità, ripreso con struggente maestria nel capolavoro cinematografico di Steven Spielberg Schindler’s List, divenne uno dei simboli più potenti della ferocia nazista. Emblematica, in particolare, è la scena che immortala lo sguardo di Oskar Schindler mentre, dall'alto di una collina, assiste raggelato alla spietata retata.
Ed è lì, il caos e la disperazione, che una piccola figura cattura la sua attenzione: una bambina con un cappottino rosso, unica nota di colore in una pellicola interamente in bianco e nero, simbolo straziante dell'innocenza violata. La sua fuga disperata, il suo rifugio sotto un letto, il ritrovamento del suo corpo senza vita: tutto converge in una sequenza di incommensurabile potenza emotiva, che segna il punto di svolta per il protagonista e lo spinge a intraprendere la missione che lo renderà immortale.
Ma chi era Oskar Schindler? Sicuramente un uomo dalla natura complessa e contraddittoria, che da opportunista e imbroglione divenne un improbabile eroe. Nato il 28 aprile 1908 a Svitavy, nell'allora Cecoslovacchia, Schindler era un uomo d'affari che inizialmente vide nell'occupazione nazista un'opportunità per arricchirsi. Entrato nel Partito Nazista nel 1939, approfittò della guerra per acquisire fabbriche confiscate agli ebrei, tra cui la Deutsche Emailwarenfabrik a Cracovia. Sebbene all'inizio la sua manovra fosse motivata dal profitto, col tempo Schindler sviluppò una crescente empatia per i suoi lavoratori ebrei, iniziando a proteggerli dai rastrellamenti.
Il suo progressivo cambiamento culminò con la decisione di sfruttare la corruzione e le sue connessioni per salvare più persone possibili. Grazie a inganni e bustarelle, riuscì a trasferire centinaia di lavoratori dalla fabbrica di Cracovia al suo nuovo stabilimento a Brünnlitz, in Cecoslovacchia, dove li tenne al sicuro fino alla fine della guerra. La famosa "Lista di Schindler", che riportava i nomi degli ebrei salvati, divenne simbolo della resistenza morale contro l'Olocausto.
Come riportato dalla BBC, lo scrittore Thomas Keneally sottolineò nel suo libro Schindler's Ark: “La lista è la vita, e tutto intorno ai suoi margini angusti giace il golfo”. Ma è nel 1964 che il giornalista Magnus Magnusson raccontò la storia di Schindler nella trasmissione della BBC Tonight, rivelando che l'ex industriale, ormai malato e in difficoltà economica, viveva grazie ai contributi degli ebrei salvati: "Il denaro che mantiene in vita lui e la sua famiglia proviene dai 1.300 ebrei le cui vite ha personalmente salvato".
E fu poi per merito di Poldek Pfefferberg, uno dei sopravvissuti, che la storia di Schindler riemerse. Dopo la guerra, Pfefferberg emigrò negli Stati Uniti e si stabilì a Beverly Hills, dove lavorava come commerciante di valigie. Nel 1980, un incontro fortuito con lo scrittore australiano Thomas Keneally cambiò tutto. Mentre Keneally cercava una valigetta, Pfefferberg gli raccontò la storia dell'industriale tedesco e gli mostrò documenti originali, compresa la famosa lista.
Come raccontò lo stesso Keneally alla BBC nel 1983: "Mentre aspettavo che gli addebiti fossero saldati sulla mia carta di credito, Pfefferberg iniziò a parlarmi della sua esperienza in tempo di guerra. Disse: 'Ho un libro per te. Sono stato salvato da Oskar Schindler, un affascinante e sognatore hitleriano. Ho molti documenti su di lui'".
Il libro che ne nacque, Schindler’s Ark, vinse il prestigioso Booker Prize nel 1982 e servì da base per il film di Spielberg del 1993. L'importanza di Pfefferberg nella diffusione della storia di Schindler fu riconosciuta dallo stesso regista durante la cerimonia degli Oscar del 1994, quando affermò: "Tutti noi gli dobbiamo un debito. Ha portato la storia di Oskar Schindler a tutti noi".
Dopo la guerra, Schindler cercò di avviare diverse attività, ma senza successo. Tornò in Germania, cadendo in disgrazia e vivendo di aiuti ricevuti dai sopravvissuti. Morì nel 1974 a 66 anni, e fu sepolto a Gerusalemme, nel cimitero cattolico sul Monte Sion. Sulla sua tomba si legge: "L'indimenticabile salvatore di 1.200 ebrei perseguitati". Oggi, il Museo di Auschwitz e lo Schindler's Factory Museum a Cracovia mantengono viva la sua memoria, mentre il film di Spielberg continua a educare milioni di persone sulla tragedia dell'Olocausto e sul coraggio di un uomo che, in un mondo dominato dalla crudeltà, scelse di fare la differenza.