Esiste un'ironia cosmica, una nemesi talmente perfetta da risultare quasi inverosimile, nel constatare che il museo più blasonato d'Europa - quello stesso che da decenni ci ammannisce lezioncine di savoir-faire culturale con la prosopopea di chi custodisce l'ombelico dell'Occidente - proteggesse i propri server di videosorveglianza con la password… "Louvre". Proprio così: L-o-u-v-r-e. Praticamente è un po’ come se un gioielliere decidesse di nascondere le chiavi della cassaforte sotto lo zerbino con scritto "Bentornato".
Grandeur in panne: il Louvre e la password più ridicola del secolo
La notizia, scodellata da Libération con il tempismo di chi getta sale su una ferita ancora purulenta, rappresenta la proverbiale ciliegina su una torta già abbondantemente avariata: la rapina da 90 milioni di euro che ha svuotato le teche dei gioielli della corona. Novanta. Milioni. Evaporati mentre il sistema informatico del Louvre risultava protetto con la stessa sollecitudine crittografica riservata all'account email della zia Peppina. Anche se, per onor di cronaca, c’è da dire che l'Agenzia nazionale per la sicurezza informatica, evidentemente composta da Cassandre inascoltate, già nel 2014 aveva ammonito che tale sciatteria digitale avrebbe potuto "facilitare il furto di opere d'arte". Un eufemismo delizioso, codesto "facilitare", che tradotto dal burocratese significa: "State praticamente appendendo un cartello luminoso con scritto SERVITEVI PURE, GRADITA LA PRENOTAZIONE". La ministra della Cultura Rachida Dati, con quella verve autolesionistica tipica di chi deve giustificare l'ingiustificabile, ha parlato di "sottovalutazione cronica e strutturale del rischio".
Aggettivi magniloquenti per mascherare la banalissima verità: qualcuno, in uno degli scrigni più celebrati della civiltà occidentale, ha pensato che "Louvre" fosse una password sufficiente. Probabilmente lo stesso genio che suggerì di affidare la Gioconda a un vetro antiproiettile solo dopo che qualcuno ci aveva tirato addosso una pietra. Ma insomma, parliamo del 1956: all'epoca la sicurezza informatica consisteva nel chiudere a chiave l'armadio del custode. Qui invece siamo nel 2025, nell'era in cui perfino la nonnina di Voghera riceve alert di violazione dati sul telefono e usa l'autenticazione biometrica. E però al Louvre la password era "Louvre".
Il colpo, scopriamo con ulteriore diletto, sarebbe stato perpetrato non da raffinati gentlemen cambrioleurs alla Arsenio Lupin, bensì da una coppia proveniente dai sobborghi con prole al seguito. Lui trentasettenne con curriculum da taccheggiatore seriale, lei trentottenne ora indagata per complicità, entrambi domiciliati nella periferia nord parigina. La procuratrice Laure Beccuau ha tenuto a precisare che "i loro profili non corrispondono a quelli generalmente associati alla criminalità organizzata".
Una perifrasi squisita per dire: erano così improbabili che nessuno li ha minimamente considerati. Il DNA della coppia è stato rinvenuto nel cestello dell'elevatore utilizzato per trafugare i gioielli, particolare che evoca scenari di un'approssimazione criminale quasi commovente: lui che armeggia con i diademi, lei che fa il palo nervosamente, magari preoccupata di aver lasciato i bambini dalla suocera senza ricordarsi di portare il biberon. Una rapina en famille, insomma, con quel tocco di charme popolano che i francesi amano tanto celebrare al cinema ma detestano sperimentare nel salotto di casa. La donna, interrogata dal giudice, è scoppiata in lacrime affermando di temere per la propria vita e quella dei figli.
Un pathos degno della miglior tradizione melodrammatica transalpina, quella stessa che ci ha regalato Les Misérables e ora ci offre Les Maladroits. Nel frattempo, il Louvre annuncia con piglio marziale l'implementazione di "sistemi integrati basati su intelligenza artificiale e protocolli di crittografia avanzata". Traduzione: cambieranno finalmente la password. Magari opteranno per "Louvre2025" o, in un impeto di audacia informatica, "P@ssw0rdLouvre". La formazione specifica del personale, poi, promette meraviglie: immaginiamo corsi intensivi su come non utilizzare il nome dell'istituzione come chiave d'accesso universale. In tutto questo meraviglioso bailamme, i cugini d'Oltralpe, così magniloquenti quando si tratta di impartire lezioni di stile, così impettiti nella loro millantata superiorità estetica, si ritrovano ora a dissertare di firewall e riconoscimento facciale con l'imbarazzo di chi deve ammettere pubblicamente di aver scoperto l'acqua calda.
E fredda. E pure quella del bidet, che non hanno. La tentazione di ergersi a giudici implacabili sarebbe irresistibile se non fosse che, diciamocelo, anche noi italiani abbiamo le nostre magnifiche cantonate da vantare. Ma per una volta - una sola, gloriosa, irripetibile volta - godiamoci lo spettacolo della grandeur francese che inciampa sulla propria magniloquenza, spiaccicandosi sonoramente sul marmo lucido delle proprie pretese. Perché alla fine, cari amis, una password banale è solo una password banale. Ma quando appartiene al Louvre, diventa letteratura.