Non nominare il nome di Dio invano, si leggeva alla seconda ''riga'' delle tavole che Mosè portò, al suo popolo che aveva perso la retta via, scendendo dal monte Sinai.
Mai menzionare Dio se non per giusti motivi, disse Mosè, anche se molti forse si chiesero come quel comandamento avesse trovato posto nel decalogo che conteneva altri e ben più apparentemente importanti.
Eppure c'era e di quello i cristiani dovettero cominciare a tenere conto.
L'inchiesta di Report su Berlusconi ripropone lo sport nazionale: l'ipocrisia
Fatte le debite proporzioni e con il rispetto che si deve portare agli scomparsi (almeno, alla maggior parte della categoria) , oggi sembra che qualche nome non si possa pronunciare se non per celebrarne fasti e successi e che, invece, nulla si possa dire di sconveniente, come se la morte desse a tutti una patente di impunità.
Perché, forse al contrario di quel che diceva Totò, la morte non è sempre una ''livella'' perché di quel che si fa in vita resta sempre qualcosa.
Ma oggi assistiamo ad una fiera dell'ipocrisia, quasi che - ora veniamo al punto - di Silvio Berlusconi non si possa parlare male o, per meglio dire, se proprio se ne deve parlare, sarebbe solo per tesserne le lodi.
Il caso dell'inchiesta di domenica di Report è emblematico. Capiamoci: quel che la trasmissione di Sigfrido Ranucci ha fatto è l'ennesimo Bignami (non nel senso dell'esponente di Fratelli d'Italia) di tutte le cose che, ormai da trent'anni, si dicono di colui che fu anche Cavaliere del Lavoro, in merito alla sua nascita come imprenditore, ai primi passi nel mondo dell'immobiliare e, quindi, dell'emittenza televisiva, delle sue fortune economiche e su come esse si siano sostanziate. Argomenti triti e ritriti, come quello che, prima di imboccare una strada rispetto all'altra, la situazione debitoria del gruppo fosse complessa, e anche tanto.
Ma di questo si è parlato e, forse, se all'informazione non si metterà la mordacchia delle censura preventiva, si parlerà ancora. C'è però un punto su cui riflettere che va oltre la figura (controversa per alcuni, taumaturgica per altri) di Berlusconi e che riguarda se, come e in che misura parlare di qualcosa o qualcuno.
Dire, come ha fatto Marina Berlusconi, che ha tutto il diritto di difendere la memoria del padre, che l'inchiesta di Report è ''pattume mediatico-giudiziario'', ''consapevole esercizio del peggior disservizio pubblico'' e ''delirio calunniatorio'' che prosegue non fermandosi ''nemmeno davanti alla morte'', più che la giusta puntualizzazione che arriva dal vertice della piramide di Fininvest sembra una specie di ammonimento rivolto anche a chi, la Rai, dà da mangiare a Ranucci.
Anche se in alcune trasmissioni di Mediaset i toni sono molto alti, ma non per questo fanno insorgere.
Ma, ci chiediamo leggendo le dichiarazioni del presidente di Fininvest, ,davanti alla prospettiva d'essere portato in tribunale con l'accusa di avere infangato la memoria di Berlusconi, chi tornerà a parlare su di lui se non avendo la totale copertura del suo editore, che lo tuteli da azioni giudiziarie che potrebbero avere esiti economici devastanti?
Il giornalismo ha le sue regole e tutti coloro che esercitano la professione le devono rispettare, sapendo che il destinatario finale - sia esso interessato personalmente o semplice lettore - ha gli strumenti per giudicare il suo lavoro. E chi si sente offeso, ma soprattutto diffamato può tranquillamente ricorrere alla magistratura. Ma ''dopo'' e non prima, usando l'indignazione come minaccia e la querela come strumento per quella che, alla fine, chiamiamola come vogliano, altro non sarebbe che una censura preventiva.
Bene fa Marina Berlusconi a difendere il padre, ma nel rispetto del lavoro degli altri che, se caratterizzato da malafede e disonestà, potrà essere colpito da una sentenza.
Silvio Berlusconi, quindi, continua a essere divisivo, anche da morto, come lo sono i grandi uomini (questa affermazione può essere condivisa o no, lasciamo a chi ci legge il giudizio), ma difenderlo sempre e comunque, anche a dispetto delle evidenze, rischia di non aiutare la sua figura a traghettare verso l'indifferenza. Che è il destino degli uomini grandi.