Negli ultimi giorni il mondo della Formula 1 è stato attraversato da un dibattito che ha ben poco a che fare con cronometri, pneumatici e telemetrie. Lewis Hamilton, sette volte campione del mondo, ha scelto di non presentarsi alle prove Pirelli, e forse salterà persino il Gran Premio di Singapore, per restare accanto a Roscoe, il bulldog inglese che da tredici anni condivide con lui trionfi, sconfitte e quella quotidianità che raramente i riflettori catturano.
La lezione di Hamilton: quando l’amore vale più di ogni gara
Roscoe non è più un cucciolo, ormai il tempo ha lasciato il segno sulla sua respirazione affaticata, caratteristica purtroppo dolorosa di una razza selezionata dall'uomo con criteri estetici spesso spietati. Una crisi respiratoria lo ha precipitato in coma, lasciando Hamilton di fronte a quella scelta che chiunque abbia amato un animale conosce fin troppo bene: restare o andare, scegliere tra il dovere professionale e quella presenza silenziosa che può fare la differenza tra la solitudine e l'addio accompagnato. La reazione del pubblico non si è fatta attendere, e come spesso accade quando qualcuno osa mettere in discussione la sacralità del lavoro, si è scatenata una tempesta di indignazione. Gli apostoli della produttività a ogni costo, i custodi della morale del sacrificio senza se e senza ma, hanno brandito le loro sentenze come fossero verità rivelate.
"Schumi ha corso con la madre morente" è diventato il ritornello più ricorrente, come se la sofferenza altrui dovesse necessariamente diventare il metro di misura della nostra dignità. Altri hanno parlato di privilegio, sottolineando come Hamilton possa permettersi lussi preclusi ai comuni mortali, mentre alcuni datori di lavoro hanno confessato senza vergogna che avrebbero richiamato al lavoro "a calci" un dipendente nella stessa situazione.
Non è mancata neppure l'immancabile polizia della coerenza, pronta a sventolare vecchie fotografie del pilota (da tempo vegano) a dorso di cammello o a ricordare le sue scarpe in pelle firmate Puma, come se un percorso di crescita etica dovesse essere cristallizzato in una perfezione immobile o non valere nulla. Eppure, proprio in questo rumore assordante di giudizi affrettati e moralismi spiccioli, la decisione di Hamilton risplende per la sua semplicità disarmante.
Quell'uomo che ha dedicato la vita alla velocità, alla competizione, alla ricerca del centesimo di secondo che separa la gloria dall'oblio, ha scelto di fermarsi. Ha scelto di dire che esiste qualcosa di più importante di una sessione di test, qualcosa che nessuna classifica, nessun contratto miliardario, nessun applauso può rimpiazzare: la presenza accanto a chi ci ha amato senza chiedere nulla in cambio.
Perché chiunque nella sua vita abbia avuto un cane o un gatto lo sa: sono compagni di vita a tutti gli effetti. Non un optional da incastrare tra un impegno e l'altro, non affetti da relegare nei ritagli di tempo che il dovere produttivo concede con parsimonia. Ragion per cui tutti dovremmo avere il diritto di assentarci dal lavoro per stare accanto a chi amiamo nei momenti cruciali, senza per questo temere ritorsioni, giudizi o conseguenze economiche devastanti. Purtroppo, e qui gli odiatori di professione hanno colto nel segno seppure involontariamente, non tutti possono permettersi questo gesto. Non chi lavora con contratti precari in una qualsiasi catena produttiva dove l'essere umano è ridotto a ingranaggio sostituibile, non chi si trova alle dipendenze di imprenditori cinici per i quali il profitto rappresenta l'unico valore degno di considerazione.
La triste verità è che la libertà di scegliere l'amore sulla prestazione rimane, in questa società, un privilegio di pochi, e questo è precisamente lo scandalo che dovrebbe indignarci, non la scelta di Hamilton che, con questo gesto apparentemente semplice, ci ha offerto una lezione di umanità che molti non riusciranno a comprendere. Non servirà a cambiare le leggi, probabilmente non scalfirà neppure le certezze granitiche di chi considera un cane solo un cane, e la dedizione assoluta al lavoro come l'unica virtù degna di rispetto.
E però da qualche parte bisogna pur cominciare per immaginare un mondo diverso, dove il valore di una persona non si misura esclusivamente in termini di disponibilità infinita, dove accudire il proprio pet o, peggio, accompagnarlo nell’ultimo suo viaggio, non venga considerato un cedimento ma esattamente quello che è: un atto d’amore. E’ questa la grande lezione di Hamilton, che con la sua assenza dal paddock ci ha ricordato che bisogna essere prima di tutto campioni dentro. Che esistono gare più importanti di quelle che si corrono in pista, battaglie che valgono più di ogni trofeo. E in questo momento, la sua battaglia è accanto a Roscoe: dove dovrebbe essere, dove è giusto che sia.