C'è un momento, nella parabola di ogni civiltà, in cui la prudenza si tramuta in paura, il buonsenso in conformismo, la moderazione in paralisi. È l'istante in cui la Storia chiede il suo tributo di follia: quella follia lucida, che sola può squarciare il velo dell'assuefazione. Le immagini della Flotilla che solca il Mediterraneo - col suo carico di simboli, speranze e provocazioni - appartengono esattamente a questa particolare categoria di gesti che trascendono la logica immediata per interrogare qualcosa di più profondo: la capacità di una società di guardarsi allo specchio senza distogliere lo sguardo.
Elogio della dissennatezza necessaria
Non importa quale posizione si scelga di assumere dinanzi a questa iniziativa. Ciò che conta è riconoscere che, nell'epoca del rumore bianco e dell'indignazione preconfezionata, essa ha compiuto l'unica operazione che vale: ha creato un varco. Ha obbligato il dibattito pubblico a uscire dai propri recinti ideologici, costringendo le coscienze a fare i conti con una contraddizione che da troppo tempo giace sedimentata sul fondo della nostra confortevole distrazione occidentale. Del resto la Storia dell'umanità è costellata di gesti apparentemente insensati.
Quando Rosa Parks, il primo dicembre del 1955, rifiutò di cedere il posto a un passeggero bianco su quell'autobus di Montgomery, la sua non fu una scelta ragionevole. Era più sensato piegarsi, evitare lo scontro, proteggere la propria incolumità. Eppure, in quell'ostinazione irragionevole si condensò tutta la dignità negata di un'intera comunità.
A ben guardare anche Galileo che sussurra "Eppur si muove" compie un atto di testardaggine che ai contemporanei doveva apparire velleitario, se non folle. Così come folle dovette apparire Émile Zola quando pubblicò J'accuse sulla prima pagina dell'Aurore mettendo a repentaglio la propria libertà per un capitano ebreo che forse nemmeno conosceva personalmente. Tutti gesti, questi, che la ragionevolezza suggerirebbe di evitare, che il calcolo utilitaristico bollerebbe come perdenti.
Eppure sono proprio questi atti di santa irragionevolezza a spostare gli equilibri, a ridefinire il perimetro del possibile. Ecco perché il mare che solcato in trenta giorni, o poco più, dalla Flotilla non è soltanto una distesa d'acqua.
È il luogo simbolico dove l'Europa incontra, o meglio evita di incontrare, le proprie responsabilità storiche e le proprie contraddizioni presenti che partono esattamente da lì: da quel mare che fu culla di civiltà, ponte tra culture, via di scambi incessanti, e che si è progressivamente trasformato in frontiera, in barriera, in cimitero. In questo scenario, la Flotilla, con il suo anacronistico idealismo, con la sua ingenuità quasi ottocentesca, ci ricorda che quella trasformazione non è inevitabile, non è una legge di natura, ma una scelta politica e morale che come tale può, e anzi deve, essere contestata.
C'è qualcosa di profondamente brechtiano in questa iniziativa: il Verfremdungseffekt, lo straniamento che obbliga lo spettatore a vedere diversamente ciò che aveva smesso di vedere. Quando la routine ha anestetizzato la sensibilità, quando le tragedie quotidiane sono diventate cifre statistiche commentate tra un caffè e l'altro, occorre un gesto iperbolico per risvegliare l'attenzione. E no: non necessariamente un gesto efficace nel senso pratico del termine, ma efficace come atto performativo, come intervento nel teatro della politica internazionale.
Gli artisti lo sanno bene. Marcel Duchamp che espone un orinatoio rovesciato, Yves Klein che vende il vuoto, Marina Abramović che si sottopone a prove fisiche estreme: l'arte moderna e contemporanea è piena di gesti che ai più appaiono incomprensibili, provocatori, gratuiti.
Eppure sono proprio questi atti di rottura a ridefinire i confini dell'espressione, a costringere il pubblico a riflettere su ciò che dà per scontato. Ecco: idealmente, la Flotilla appartiene a questa tradizione di azioni che si collocano sul crinale ambiguo tra politica e performance, tra testimonianza e provocazione. Perché qui non si tratta di stabilire se questi attivisti abbiano ragione o torto, se la loro strategia sia vincente o perdente, se i loro metodi siano condivisibili o discutibili.
Si tratta di riconoscere che hanno compiuto l'atto fondamentale della dissidenza: hanno rifiutato di rimanere al loro posto, hanno scelto l'esposizione invece della sicurezza, la testimonianza invece del silenzio. In un'epoca in cui l'attivismo si consuma spesso tra un hashtag e l'altro, tra una petizione online e un post indignato, hanno scelto la materialità del corpo, il rischio fisico, la presenza.
E questo, al di là di ogni giudizio, è forse il suo merito più grande: aver costretto tutti a uscire da questa comfort zone retorica obbligando chi si professa umanitario a interrogarsi sulle forme concrete dell'umanitarismo, su cosa significhi davvero prendersi carico della sofferenza altrui. Ha costretto chi invoca la legalità e la sovranità a confrontarsi con la domanda di quale sia il rapporto tra la lettera della legge e lo spirito della giustizia.
Ha messo in crisi le certezze, complicando le narrazioni, introducendo dubbi dove sembravano esserci solo evidenze. Ed è proprio questo, più che qualsiasi esito pratico, il suo intrinseco valore: aprire uno spazio di riflessione, là dove c'era solo ripetizione meccanica di posizioni precostituite.
In fondo, ogni progresso civile è nato da questa dialettica tra l'idealismo di chi osa immaginare un mondo diverso e il pragmatismo di chi deve costruirlo. Ma senza il primo movimento - quello apparentemente folle, irragionevole, utopico - il secondo non avrebbe mai avuto luogo. Perché i diritti che oggi consideriamo ovvi furono un tempo rivendicazioni ridicolizzate, i princìpi che diamo per scontati furono un tempo eresie pericolose.
Qualunque sia il giudizio che si abbia in proposito, una cosa è certa: i marinai della Flotilla hanno fatto ciò che la società contemporanea, con i suoi infiniti dispositivi di mediazione e di delega, rende sempre più raro: si sono mossi. E nel muoversi hanno smosso qualcosa anche in noi, hanno creato un'increspatura nella superficie piatta del nostro tempo. E forse è proprio questo che la Storia chiede, nei suoi momenti più critici: non la saggezza dei prudenti, non il calcolo degli strateghi, ma la follia lucida di chi si rifiuta di accettare l'inaccettabile. Anche, o soprattutto, quando tutti consigliano di farlo.