Salute

Fine vita: il confine tra libertà e tutela

Barbara Leone
 
“Su se stesso, sul suo corpo e la sua mente l’individuo è sovrano”, scriveva nel 1859 il filosofo inglese John Stuart Mill. Una dichiarazione tanto potente quanto controversa, soprattutto se applicata a uno degli argomenti più delicati e divisivi della nostra epoca: il diritto alla dolce morte.
Una tematica che da sempre solleva domande profonde e universali, capaci di scuotere le fondamenta di ogni certezza personale e collettiva.

Fine vita: il confine tra libertà e tutela

Fino a quando una vita è degna di essere vissuta? Qual è il confine tra autodeterminazione e tutela della vita?
E, soprattutto, è possibile stabilire se e quando sia giusto porre fine alla propria esistenza?

Per molti, la risposta a queste domande è radicata in convinzioni religiose o morali. Per altri, si tratta di un tema che tocca direttamente la propria esperienza di sofferenza o quella dei propri cari. Pensiamo ai tetraplegici, ai malati terminali di SLA o di cancro, o ancora a persone come Laura Santi, giornalista perugina affetta da una forma avanzata di sclerosi multipla.

La sua recente vittoria legale per accedere al suicidio medicalmente assistito rappresenta un caso emblematico, specchio di un sistema italiano che sul fine vita appare ancora bloccato da ritardi legislativi e divisioni ideologiche. Cominciamo col ricordare che in Italia l'eutanasia, che prevede un'azione diretta da parte di un medico per porre fine alla vita di un paziente, resta vietata. Mentre il suicidio assistito, dove è la persona malata a somministrarsi il farmaco letale, è stato parzialmente legalizzato grazie alla storica sentenza della Corte Costituzionale del 2019. Questo risultato, nato dal caso di Fabiano Antoniani, meglio conosciuto come Dj Fabo, ha segnato un punto di svolta importante, ma non privo di limitazioni: il paziente deve trovarsi in una condizione irreversibile, con sofferenze fisiche o psicologiche insopportabili, e dipendere da trattamenti di sostegno vitale. Nonostante le aperture della Corte, il Parlamento italiano, però, non è ancora riuscito ad approvare una legge organica sul fine vita.

Gli iter legislativi si scontrano con le divisioni politiche, mentre le richieste di chiarezza aumentano. Secondo il rapporto annuale del Censis del 2023, il 74% degli italiani si dichiara favorevole all’eutanasia. Parallelamente, il Numero Bianco sui diritti nel fine vita, promosso dall’Associazione Luca Coscioni, ha registrato quasi 14.000 richieste di informazioni negli ultimi 12 mesi, con un incremento del 17% rispetto all’anno precedente. Di queste, 2.470 persone hanno cercato informazioni specifiche su eutanasia e suicidio assistito, e 782 sulla sedazione palliativa profonda. Non è difficile intuire, quindi, quanto il tema tocchi corde profonde nella società italiana.

In assenza di risposte adeguate sul territorio nazionale, molti italiani scelgono di rivolgersi all’estero.
La Svizzera, con procedure più snelle, ma costose, rappresenta una delle mete principali per chi desidera porre fine alle proprie sofferenze. Qui, organizzazioni specializzate offrono supporto a chi intraprende questo doloroso cammino. Ma la Svizzera non è l’unico Paese che ha scelto di affrontare il tema con maggiore apertura.
Tra quelli che hanno legalizzato il suicidio assistito negli ultimi anni, il Canada spicca per il suo approccio progressista, ma anche per le polemiche che ha suscitato. Dal 2016, anno in cui la morte medicalmente assistita è stata legalizzata, il numero di richieste è aumentato costantemente.

Nel 2023, circa 15.300 persone hanno scelto questa via, pari al 4,7% dei decessi totali nel paese. La maggior parte dei richiedenti, il 96%, soffriva di patologie terminali con morte prevedibile, mentre il restante 4% includeva persone affette da malattie croniche e debilitanti. Il Canada ha compiuto passi significativi nel tentativo di ampliare l'accesso alla morte assistita. Nel 2021, ha esteso la normativa includendo anche persone con patologie non terminali, ma croniche e debilitanti. Inoltre, il Parlamento canadese sta considerando l’opzione di includere, da 2027, anche persone affette da disturbi mentali. Questo ampliamento dei criteri di idoneità ha suscitato un acceso dibattito, sollevando preoccupazioni sulle potenziali implicazioni etiche e sociali. Non mancano, infatti, episodi controversi. Uno dei casi più discussi riguarda una donna sulla cinquantina, affetta da depressione e sensibilità chimica, la cui richiesta di eutanasia è stata approvata per l'impossibilità di trovare un alloggio adatto alle sue condizioni. Altrettanto emblematico è il racconto di una paziente oncologica della Nuova Scozia, a cui sarebbe stato suggerito di considerare il suicidio assistito durante un intervento chirurgico. Questi episodi hanno alimentato il timore che la morte assistita possa essere utilizzata come scorciatoia per sopperire a carenze strutturali del sistema sanitario e sociale canadese.

Il Quebec, una delle Province più aperte in materia, registra il tasso più elevato di decessi per eutanasia, pari al 37% del totale nazionale, nonostante rappresenti solo il 22% della popolazione canadese. Questa discrepanza ha portato il governo provinciale a condurre studi approfonditi per comprendere le ragioni di un ricorso così elevato alla dolce morte. Parallelamente, i dati pubblicati nel 2023 da Health Canada hanno evidenziato un aumento del 16% nel tasso di suicidi assistiti rispetto all'anno precedente. Sebbene questo incremento sia più contenuto rispetto alla crescita media del 31% osservata negli anni precedenti, il fenomeno continua a destare attenzione. Particolarmente interessante è l'analisi delle differenze etniche: il 96% di chi ha optato per la morte assistita si è identificato come persona di razza bianca, una cifra sproporzionata rispetto alla composizione etnica del Paese. Questo dato solleva interrogativi su possibili disparità di accesso o percezioni culturali legate al fine vita.

In Europa, paesi come Paesi Bassi, Belgio, Spagna e Austria hanno già adottato legislazioni avanzate in materia di fine vita. La Gran Bretagna, invece, si trova ancora in una fase di dibattito acceso. A ottobre, i parlamentari britannici hanno approvato una proposta di legge per garantire il diritto alla morte assistita ai malati terminali, ma il percorso verso una normativa definitiva è ancora lungo.
Al cuore di questo complesso dibattito c'è una verità innegabile: uno Stato civile ha sì il dovere di garantire una morte dignitosa, ma anche e soprattutto una vita altrettanto dignitosa. E ciò significa investire in cure palliative, assistenza domiciliare e supporto psicologico, assicurando a ogni cittadino la possibilità di affrontare la malattia con dignità e rispetto. Ecco perché, guardando al Canada, viene spontaneo chiedersi se il diritto al suicidio assistito non rischi di trasformarsi in una scorciatoia per colmare le carenze strutturali del welfare. La scelta di porre fine alla propria vita è una decisione carica di dolore e complessità, che richiede un sistema capace di offrire alternative valide e un supporto adeguato.

E soprattutto, il dibattito sul fine vita non può e non deve essere solo una questione politica o legislativa. Perché è un tema che tocca le corde più profonde dell’esistenza umana. Perché prima o poi, ognuno di noi sarà chiamato a confrontarsi con la fragilità, la sofferenza e la perdita. Ed in questo contesto, il vero progresso consisterà nel trovare un equilibrio tra il rispetto per la libertà individuale e la protezione delle vite più vulnerabili. Non si tratta di ideologia, ma di empatia, compassione e giustizia.
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