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Le elezioni regionali lasciano Lega e Cinque Stelle a interrogarsi sulle scelte

Redazione
 
Le elezioni regionali lasciano Lega e Cinque Stelle a interrogarsi sulle scelte

Si fa un bel dire che le elezioni regionali non sono importanti, motivando questo giudizio sul fatto che si tratta di consultazioni parziali, troppo legate al territorio e nelle quali a valere sono gli uomini e non invece le idee, come dovrebbe essere più giusto. Ma, mai come in queste settimane, seguite ad un paio di appuntamenti regionali, l'idea che in fondo le regionali non abbiano riflessi nazionali dovrebbe essere rivista: basta vedere cosa sta accadendo dentro la Lega e i Cinque Stelle, i partiti usciti sconfitti o ridimensionati e che ora devono rivedere le loro politiche e le scelte che le hanno caratterizzate.

Le elezioni regionali lasciano Lega e Cinque Stelle a interrogarsi sulle scelte

Il problema non è eguale perché la Lega deve fare i conti non solo per la batosta rimediata in Toscana, quanto è costretta a riflettere su cosa l'abbia determinata. E qui l'attenzione è tutta sul ruolo di Roberto Vannacci, su quello che Matteo Salvini gli ha concesso (essere il dominus di tutto, dalla campagna elettorale alla composizione delle liste) e su come egli l'abbia inteso, galleggiando ancora in una condizione di incertezza rispetto al futuro del suo movimento e su come evitare, per come invece sta accadendo nell'ala ''tradizionalista'', che sia percepito come un corpo estraneo.

Non è, quindi, una questione di analisi dei risultati elettorali, ma di prospettiva. Capire, cioè, come ''sfruttare'' quello che lo scorso anno era il ''fenomeno Vannacci'' e che oggi appare ridimensionato, nei numeri almeno, come una risorsa per un partito che ancora non ha sciolto il quesito di fondo che accompagna la segreteria Salvini: restare convinti dell'idea di un movimento nazionale o raccogliere il grido di dolore che arriva da parti importanti del recente passato della Lega (Regioni Lombardia e Veneto, su tutte) che rivendicano un ritorno alle origini.

A quando, cioè, la Lega era un fortissimo polo di aggregazione delle realtà locali che rivendicavano attenzione e rispetto. Vannacci, in Toscana, dove ha avuto totalmente mano libera (forse anche perché l'esito della consultazione era scontato), ha fatto delle scelte che si sono rivelate autolesionistiche, lavorando alla composizione delle liste, ma non coinvolgendo i maggiorenti locali del partito, che quindi si sono sentiti esclusi, alimentando il sospetto - prontamente respinto - di non essersi spesi al 101 per cento per il buon esito del voto.

L'ampiezza della sconfitta, peraltro, ha fatto il resto, avendo la Lega, nonostante l'impegno di Vannacci, perso una montagna di voti e vedendo la sua pattuglia in Consilio regionale ridotta al minimo.
Quindi il problema della Lega non può essere circoscritto alle recenti ''scoppole'' elettorali, ma agli obiettivi che Matteo Salvini si è posto e che rischiano di dovere, prima, fare i conti con il manifestarsi di dissensi sulla sua conduzione del partito.

Veneto e Lombardia, seppure con motivazioni e dinamiche diverse, rivendicano una maggiore attenzione, poco importando agli esponenti locali quali siano le dinamiche di respiro nazionale che il segretario porta avanti e che devono necessariamente tenere conto dell'evidenza che la Lega è anche presente in Regioni non del Nord, tradizionale serbatoio di voti e consensi, con alcuni nomi nuovi che reclamano spazio e responsabilità maggiori.

Il fatto stesso che Vannacci abbia preferito di non essere presente all'appuntamento del consiglio federale è sembrato anticipare le correzioni di rotta che Salvini ha voluto ufficializzare, come il ruolo che le associazioni possono avere dentro la Lega: tollerate, ma non alternative. Così come sembra essere stata accantonata l'idea di fare muovere la Lega su un doppio binario territoriale, quasi una partenogenesi politica, con la nascita di un partito federato, al Nord, ma meno condizionato dalle logiche nazionali.

Comune, Salvini sembra avere adottato una tattica d'attesa, come il giunco del proverbio, che, sull'argine del fiume, si piega, ma solo aspettando che passi la piena.
Forse più definita la situazione in casa Cinque Stelle dove Giuseppe Conte ha incassato, senza colpo ferire, la per certi versi incomprensibile decisione di Chiara Appendino di dimettersi da vicepresidente, ritenendo il movimento troppo ''legato'' al Pd e , quindi, addebitando a questo i severissimi ridimensionamenti che i grillini registrano ormai da troppe elezioni.

A Conte, tutto sommato, che Appendino sia uscita dalla stanza dei bottoni del movimento (dove però non viene accettata alcuna voce critica alle scelte del capo) non è dispiaciuto, per il solo fatto di avere avuto, dalla base e dai referenti del partito, una conferma del suo ruolo.

Quello che resta difficile da interpretare è la scelta di Chiara Appendino che, anziché restare dentro la macchina decisionale del partito, ha preferito uscirne, forse con la speranza che, avendo mani libere, le sue idee possano avere maggiore eco. Un errore di valutazione che quindi priva la minoranza interna (sempre che ce ne sia una degna di questo nome..) della possibilità di dare voce al dissenso (sempre che ne sia uno degno di questo nome...). Che poi ad applaudire alla scelta di Appendino sia stato, tra pochi, l'ex ministro Danilo Toninelli sembra dire molto sul peso della scelta dell'ex sindaco di Torino.

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