''Cosa faresti se le persone che ami iniziassero a sposare idee che odi?''.
È una domanda che lacera. Non chiede solo un'opinione: esige un’esplorazione profonda, un confronto lacerante con il cuore stesso dell’identità, dell’amore, della memoria. È il quesito che Sylvia ''Sally'' Carson, giovane scrittrice inglese scomparsa troppo presto, scolpisce nell’anima del lettore con il suo romanzo ''Crooked Cross'', opera smarrita nel tempo e oggi finalmente restituita alla coscienza collettiva grazie alla casa editrice Persephone Books.
Nazismo: un romanzo perduto ci costringe a scegliere da che parte stare
Pubblicato nel 1934, quando ancora l’Europa si illudeva che il buio potesse essere solo un temporale passeggero, Crooked Cross (il cui titolo si riferisce al simbolo della svastica adottato dai nazisti) si fa luce tremula in un paesaggio di anime contese. È un romanzo nato dal sangue vivo dell’esperienza: Carson scrive con la febbre addosso, ispirata da viaggi giovanili in Baviera, e racconta l’aurora glaciale della tirannia nazista con uno sguardo che brucia di presagio.
Non è il senno di poi a guidarla: è il senno del cuore.
Nella casa dei Kluger, vicino alle montagne a sud di Monaco, è Natale. Una famiglia, come tante. Un camino acceso, rami d’abete, un pianoforte decorato e mani che si intrecciano per addobbare l’albero.
Il mondo è ancora integro, sebbene incrinato da preoccupazioni economiche, da sacrifici imposti dalla depressione. Eppure, nell’angolo della stanza, c’è già un’ombra che inquieta: un quadro di Hitler, tra i festoni. È un dettaglio, apparentemente insignificante. Ma è il seme del disastro.
Con una delicatezza che sa essere spietata, Carson non ci racconta la storia di una nazione, ma quella di una casa.
È nel microcosmo della famiglia Kluger che il veleno della propaganda inizia a gocciolare. Helmy, il figlio maggiore, sensibile, gentile, sincero: è proprio lui, paradossalmente, il primo a lasciarsi sedurre dalle promesse di un futuro redento. Il partito nazista gli offre un ruolo, uno scopo, una dignità perduta: diventa funzionario locale. Inizia a crederci. E inizia a odiare.
Lexa, la sorella, non vuole arrendersi. Ama Moritz, giovane chirurgo di successo ebreo, e resiste. Resiste alle parole del fratello, alla pressione del padre, alle trasformazioni di un Paese che si volta dall’altra parte. Ma l’aria è sempre più densa. Gli stivali militari iniziano a rimbombare anche sulle strade tranquille dei villaggi alpini.
Erich, il fratello minore, si arruola nelle camicie brune e si pavoneggia come un soldatino fiero. I genitori tacciono, confusi tra il senso di appartenenza e l’inquietudine.
Carson scrive con compassione, ma senza indulgenza. Ci mostra come l’orrore si insinui non con la violenza, ma con l'abitudine. È un processo fatto di piccoli gesti, di parole pronunciate con troppa sicurezza, di sguardi distolti. È un fuoco che brucia lento, fino a divorare tutto.
E allora torna quella domanda, ancora, più lancinante che mai: ''Cosa faresti se le persone che ami iniziassero a sposare idee che odi?'', se tuo fratello ti dicesse che l’uomo che ami è ''un problema'', ''una minaccia'', ''un errore''?
Se tua madre, senza volerlo, ti chiedesse di ''non metterla nei guai''? Se la tua casa, un tempo rifugio, diventasse l’anticamera dell’abisso?
Nel romanzo, Moritz perde tutto: il lavoro, la reputazione, persino il diritto a prendere un libro in prestito in biblioteca. L'umiliazione è sistematica, silenziosa, legale. Eppure è sulla pista da ballo, in un istante di umana leggerezza, che il veleno esplode. ''Accidenti a te!... sporco ebreo... Togliti di mezzo!'' grida un uomo, e Carson, che quelle parole le ha sentite davvero, le affida alla pagina come un graffio sulla coscienza del lettore.
Poi, nel cuore della notte di mezza estate, in una Germania sempre più livida, Lexa compie un gesto che spezza ogni vincolo: con un coraggio struggente, sceglie. E sceglie l'amore. Le conseguenze sono devastanti. (spoilerare il resto significherebbe rovinare la storia). Ma la speranza, in Carson, è amara. Non salva. È tragica, perché reale.
Il romanzo si chiude senza conforto: resta solo la consapevolezza, come un’eco che non tace. Eppure Crooked Cross, pur immerso nel buio, è un'opera di luce. Perché, come diceva E. L. Doctorow, ''lo storico vi racconterà cosa è successo. Il romanziere può raccontarvi cosa si è provato''.
E Carson riesce nell’impresa più ardua: non ci dice solo cosa accadde. Ci porta lì. Ci costringe a sentire, a vivere, a tremare.
Quando, nel 1937, la pièce teatrale tratta dal romanzo debuttò a Londra, alcuni chiesero che venissero tagliati tutti i ''Heil Hitler''. Per non turbare, per non provocare. Ma Sally Carson aveva già visto. Aveva già capito. E con parole più sincere di qualsiasi telegramma, più limpide di ogni editoriale, ci aveva lasciato un ammonimento immortale. Oggi, a quasi un secolo di distanza, la sua voce risuona con una nitidezza inquietante. Viviamo un’epoca in cui le parole tornano a essere armi. E il mondo intero, in un crescendo inquietante, si riallaccia l’elmo e tempra le sue lance: ovunque, si moltiplicano arsenali, si rinsaldano alleanze militari, si accrescono spese belliche, come se l’umanità stesse preparando, silenziosa e febbrile, un nuovo assalto al proprio stesso destino.
Un mondo in cui giovani spaesati, disillusi, si aggrappano a ideologie che promettono ordine, riscatto, identità. Dove l'altro torna a essere il nemico. Dove i vincoli affettivi vengono lacerati da credenze nuove, radicali, spesso violente. E così Crooked Cross non è solo un romanzo: è uno specchio. E in quello specchio, siamo chiamati a guardarci. La famiglia Kluger, con i suoi sogni infranti, le sue cecità e i suoi slanci, ci appartiene. È la nostra famiglia, ieri come oggi. E Sylvia Carson, con la forza disarmante della verità narrata, ci costringe a rispondere: ''Cosa faresti se le persone che ami iniziassero a sposare idee che odi?''. Un quesito non è facile. Ma Carson, con le sue pagine vive di carne, di amore e di pianto, ci suggerisce che non si può restare in silenzio. Mai.