C'è qualcosa di profondamente disturbante nel vedere un cavallo crollare a terra in piena estate, sfinito dal caldo e dalla fatica, mentre intorno a lui la città continua a pulsare indifferente. Eppure è esattamente quello che è successo a New York qualche mese fa, quando l'ennesimo animale si è accasciato vicino alle scuderie di Central Park, lasciando il suo ultimo respiro sull'asfalto bollente.
Central Park, i cavalli restano. Le domande sull’etica umana pure
Le immagini hanno fatto il giro del web, certo, qualche condivisione indignata, qualche commento sdegnato, e poi via, si passa oltre. Perché le carrozze trainate da cavalli - a New York come a Roma - sono una tradizione, un'attrazione turistica, fanno parte del folklore cittadino da oltre centocinquant'anni. Come se l'antichità di una pratica potesse renderla automaticamente giusta, sacra, intoccabile.
E infatti la scorsa settimana una proposta per vietare definitivamente queste carrozze è stata bocciata dalla Commissione sanitaria del Consiglio comunale della Grande Mela. Niente di sorprendente, in realtà. La politica ha fatto quello che fa sempre: ha scelto la via più comoda, quella che non disturba gli interessi costituiti, quella che non richiede coraggio.
Durante un'udienza affollata, i membri della commissione hanno deciso che no, le carrozze possono continuare a circolare, i cavalli possono continuare a soffrire, tutto può rimanere com'è sempre stato. Perché cambiare è scomodo, perché dietro ci sono lavoratori da tutelare, perché la tradizione, appunto. Il sindacato dei cocchieri ha esultato, ovviamente.
Il presidente John Samuelsen ha parlato di immigrati laboriosi ingiustamente attaccati da interessi finanziari mascherati da animalismo. Ed ecco servito il solito trucco retorico: trasformare chi chiede dignità per gli animali in nemici dei lavoratori, come se le due cose fossero incompatibili, come se non si potesse tutelare l'occupazione senza per forza perpetuare la sofferenza di creature innocenti. Nessuno vuole affamare le famiglie dei cocchieri, ma forse è il momento di immaginare alternative più umane, magari carrozze elettriche a tema storico, magari altri lavori nel settore turistico. O è troppo chiedere un minimo di creatività invece di aggrapparsi ostinatamente a pratiche che appartengono a un altro secolo?
Le associazioni animaliste hanno definito il voto una farsa, e hanno ragione da vendere. L'organizzazione NYCLASS ha documentato episodi raccapriccianti: cavalli impazziti dal terrore che si schiantano contro le auto, fughe incontrollate, animali mandati in ospedale insieme ai passanti coinvolti negli incidenti.
Ma tanto, che importa? Sono solo cavalli. Come sono solo tori nelle corride spagnole, solo delfini negli acquari, solo elefanti nei circhi, solo maiali negli allevamenti intensivi. Sempre la stessa storia, sempre la stessa indifferenza mascherata da necessità economica o da rispetto delle tradizioni.
Il sindaco uscente Eric Adams, almeno lui, ha avuto il coraggio di schierarsi apertamente contro questa industria, emanando persino un ordine esecutivo per intensificare i controlli. Ha accusato il Consiglio di ignorare la volontà della maggioranza dei newyorkesi, che da tempo chiedono la chiusura del settore. Ma la sua voce è rimasta inascoltata.
Il consigliere Robert Holden, che ha promosso la proposta di legge, ha dovuto forzare il voto usando una norma procedurale, tanto i suoi colleghi erano restii anche solo a discuterne pubblicamente. E quando finalmente si è votato, è arrivato il prevedibile no. Holden ha parlato di una delle manifestazioni meno democratiche mai viste nel Consiglio comunale, e viene da credergli. Tutto questo accade in una città che si prepara a un cambio di rotta politico e culturale.
L’elezione di Zohran Mamdani promette di riportare al centro temi come l’etica urbana, il rispetto degli animali e una visione più moderna dello spazio pubblico. E chissà che proprio questa vicenda non diventi uno dei simboli della New York che verrà. Intanto la Central Park Conservancy, l'organizzazione che gestisce il parco, si è detta favorevole al divieto, citando rischi per la sicurezza e danni alle infrastrutture. Ma evidentemente non basta.
Non bastano i cavalli morti, non bastano gli incidenti, non basta il buonsenso. Perché ammettere che una tradizione è diventata insostenibile significherebbe ammettere che ci siamo sbagliati, che per troppo tempo abbiamo messo il nostro divertimento davanti alla sofferenza altrui. È lo stesso meccanismo mentale che ci permette di mangiare hamburger senza pensare agli animali che li hanno "prodotti", che ci fa indossare pellicce senza vedere le gabbie, che ci fa applaudire ai delfini che saltano attraverso i cerchi senza chiederci quanto siano felici.
Ci raccontiamo che è sempre stato così, che fa parte della cultura, che non possiamo cambiare tutto dall'oggi al domani. Ma la verità è più semplice e più brutale: non vogliamo cambiare. È più comodo continuare a vedere gli animali come oggetti, come mezzi per i nostri scopi, piuttosto che riconoscere che sono esseri senzienti con una loro dignità, capaci di provare dolore, paura, stress esattamente come noi. Viene da chiedersi se davvero siamo così evoluti come crediamo. Possiamo sviluppare intelligenze artificiali sempre più sofisticate, possiamo mandare messaggi istantanei da un capo all'altro del pianeta, possiamo mappare il genoma umano, ma non riusciamo a rinunciare a far trainare carrozze ai cavalli in pieno centro a New York.
Non riusciamo a guardare un animale negli occhi e riconoscere in lui un essere vivente degno di rispetto, non un accessorio per il nostro intrattenimento. Forse è arrivato il momento di smetterla di chiamarle tradizioni e iniziare a chiamarle per quello che sono: crudeltà normalizzate, sofferenze istituzionalizzate, violenze legalizzate. Perché il fatto che qualcosa esista da centocinquant'anni non lo rende giusto, non lo rende accettabile, non lo rende degno di essere preservato. La schiavitù era una tradizione, il lavoro minorile era una tradizione, negare il voto alle donne era una tradizione.
Le abbiamo superate, quelle tradizioni. Forse è il momento di superare anche questa, e tutte le altre che continuano a sacrificare esseri viventi sull'altare della nostra arroganza e della nostra incapacità di immaginare un mondo diverso, più giusto, più compassionevole. Perché la vicenda delle carrozze di Central Park non è un caso isolato, un'anomalia + da derubricare a cronaca locale. È parte di un sistema globale che continua a vedere gli animali come strumenti, intrattenimento, merce. Pensate al Palio di Siena, dove ogni anno cavalli vengono spinti a correre su pietre scivolose in curve impossibili, con fratture e morti che vengono minimizzate come incidenti inevitabili del folklore toscano.
O alla Feria di San Firmino a Pamplona, dove i tori terrorizzati vengono inseguiti per le strade prima di essere massacrati nell'arena, tutto in nome di una tradizione che risale al Medioevo. Come se il Medioevo fosse un periodo storico a cui aspirare, come se dovessimo prendere ispirazione etica da un'epoca in cui si bruciavano le streghe e si praticava la tortura giudiziaria. E poi ci sono gli zoo, questi musei viventi dove animali che dovrebbero percorrere decine di chilometri al giorno vengono rinchiusi in spazi ridicoli per il nostro voyeurismo domenicale.
L'orso polare che gira in tondo nella sua vasca di cemento, l'elefante che oscilla nevroticamente avanti e indietro mostrando tutti i segni di un disturbo psichiatrico grave, il leone che fissa il vuoto con lo sguardo spento di chi ha rinunciato a vivere. Ma va bene, perché così i bambini possono vedere gli animali dal vivo, come se non esistessero documentari straordinari che mostrano questi esseri nel loro habitat naturale, nella loro vera magnificenza, invece che in versione depressa e farmacologicamente sedata. E vogliamo palare dell'industria della moda, che ancora oggi, nell'anno 2025, continua a scuoiare animali vivi per produrre borse e scarpe di lusso? Visoni, volpi, conigli allevati in gabbie minuscole, impazziti dallo stress, che si mordono le zampe e si strappano il pelo, solo perché qualcuno possa sfilare con una pelliccia che grida al mondo intero "ho più soldi che empatia".
E quando vengono fuori i video degli allevamenti, quando qualche attivista infiltrato riesce a documentare l'orrore, ecco che partono le campagne di pubbliche relazioni, le rassicurazioni sulle norme etiche, i bollini di qualità che non significano assolutamente nulla se non che l'animale è stato torturato seguendo un protocollo approvato. E che dire dell’industria alimentare, con i suoi allevamenti intensivi dove maiali, mucche e polli vivono letteralmente ammassati nelle loro feci, pompati di antibiotici, geneticamente modificati per crescere così velocemente che le loro zampe si rompono sotto il peso del proprio corpo. Galline stipate in gabbie talmente strette che non possono nemmeno aprire le ali, mucche da latte inseminate artificialmente in continuazione, separate dai loro vitelli poche ore dopo il parto mentre entrambi muggiscono disperati per giorni. Ma certo, parliamo di benessere animale perché adesso le gabbie sono tre centimetri più grandi e chiamiamo questo "progresso".
Il problema di fondo è sempre lo stesso: continuiamo a vivere in una bolla antropocentrica dove tutto ruota intorno ai nostri bisogni, ai nostri desideri, ai nostri capricci. Gli animali esistono per servirci, punto. Che sia per trascinarci in giro a Central Park, per intrattenerci in un'arena, per finire nel nostro piatto, per decorare il nostro corpo o per farci sentire scientificamente avanzati. La loro sofferenza non conta, o conta così poco da poter essere tranquillamente sacrificata sull'altare delle nostre convenienze.
Eppure sappiamo, la scienza ce lo conferma da decenni, che gli animali provano dolore, paura, angoscia, che hanno vite emotive complesse, che formano legami affettivi, che soffrono quando vengono separati dai loro simili o confinati in spazi inadeguati. Non servono grandi studi per capirlo, basta guardare negli occhi un cane che viene abbandonato, un vitello portato via dalla madre, un cavallo che crolla esausto sull'asfalto. Ma preferiamo non guardare, preferiamo girare la testa, preferiamo credere alla comoda bugia che gli animali siano fondamentalmente diversi da noi, insensibili, incapaci di vera sofferenza.
La verità è che abbiamo semplicemente paura di quello che scopriremmo se iniziassimo davvero a prestare attenzione, se smettessimo di nasconderci dietro le tradizioni, l'economia, la cultura. Scopriremmo che siamo complici di una violenza sistematica e quotidiana, che ogni giorno contribuiamo a un olocausto silenzioso di proporzioni inimmaginabili. E questo è difficile da accettare, perché mette in discussione non solo le nostre abitudini, ma la nostra stessa identità di esseri civili, evoluti, compassionevoli ospiti, e non padroni, di un mondo in cui il progresso tecnologico sia finalmente accompagnato da un vero progresso etico, e in cui la parola civiltà significhi qualcosa di più che grattacieli e intelligenza artificiale.
Un mondo dove riconosciamo che la vera misura della nostra evoluzione non sta in quanto siamo diventati tecnologicamente avanzati, ma in quanto siamo capaci di estendere la nostra cerchia di compassione oltre i confini della nostra specie.