Alla stazione di Pescara, in una giornata qualunque d’agosto, una donna non vedente, in arrivo da Bologna, si mette alla ricerca di un taxi per raggiungere Montesilvano. È in vacanza, accompagnata dal suo cane guida, una splendida Hovawart di nome Dinka.
“Niente cani sul mio taxi”: quando l’ignoranza prende il volante
Una scena che non dovrebbe fare notizia, e invece la fa. Perché il tassista, con la disinvoltura di chi si sente impunito, le dice semplicemente: “Niente cani sul mio taxi”. Fine della corsa. Anzi, neppure l’inizio. Nessuna spiegazione. Nessuna esitazione.
Solo un “no” secco, tagliente, carico di quella forma di ignoranza che si traveste da abitudine, da regola autoimposta, da arbitrio quotidiano. La legge, evidentemente, per il tassista non è contemplata.
Eppure esiste, chiara e netta: la Legge n. 37 del 1974, aggiornata nel 2006, obbliga tutti i servizi pubblici — taxi inclusi — ad accettare i cani guida senza alcuna limitazione. Lo dice la legge, ma evidentemente il tassista non ascolta.
Katia, la donna non vedente protagonista di questa vicenda, ha vissuto un piccolo trauma: “Sono rimasta spiazzata. È la mia prima volta in Abruzzo e quello è stato il primo impatto”. E come darle torto? Per chiunque un rifiuto ingiustificato può essere seccante, ma per una persona cieca — la cui libertà di movimento si fonda letteralmente su un legame di fiducia e dipendenza con il proprio cane guida — è qualcosa di molto più profondo. È un'umiliazione. Perché Dinka non è un semplice cane. È occhi, è orientamento, è sicurezza, è libertà. È il ponte che unisce il mondo di chi non vede con quello degli altri. Negarle l’accesso significa non solo disconoscere un diritto, ma anche calpestare una relazione fatta di complicità, addestramento, fatica, e amore. Significa decidere che, in fondo, la disabilità è un problema altrui.
Il gesto ha suscitato l’intervento della Polfer, che ha tentato invano di far ragionare il conducente. Nulla da fare. Alla fine, gli agenti hanno semplicemente accompagnato Katia verso un altro mezzo e segnalato l’accaduto alla polizia municipale.
Risultato? Probabilmente una multa, una sanzione tra i 500 e i 2.500 euro. Nulla che possa restituire a Katia la dignità negata in quel momento. Nulla che davvero scoraggi chi, alla guida di un mezzo pubblico, decide in autonomia chi può o non può salire.
Per fortuna, a posteriori, le scuse sono arrivate: da parte dei sindaci di Pescara e Montesilvano, del consorzio taxi, e degli operatori sociali del territorio. Un gesto doveroso, apprezzato dalla protagonista, che ha sottolineato di essersi poi sentita accolta e rispettata ovunque. Ma resta l’onta iniziale, l’episodio che, come ha detto lei stessa, “ti spiazza”. E resta, soprattutto, un interrogativo: quante volte ancora dovremo assistere a questi episodi, prima che vengano davvero presi sul serio?
Ci si potrebbe chiedere — con una certa indulgenza d’ufficio — se il tassista in questione fosse in un giorno storto, sopraffatto da problemi personali, magari persino allergico o fobico nei confronti dei cani.
Bene: nulla di tutto ciò lo avrebbe giustificato. Al massimo, avrebbe potuto scusarsi, riconoscere di essere lui stesso in difficoltà, e fare ciò che farebbe chiunque dotato di empatia: chiamare un collega, assicurandosi che la persona potesse viaggiare in sicurezza. E invece no. Troppo impegnato a tutelare i suoi sedili, troppo poco interessato alla dignità altrui. Ecco, gira che ti rigira, non ci sono giustificazioni.
Solo l’eco stonata di un gesto sbagliato, arrogante, meschino. Una nota stonata in una società che, almeno a parole, si professa “inclusiva”. Ma che poi si smentisce sul marciapiede di una stazione, al cospetto di una donna e del suo cane guida. In altri casi simili, come a Fiumicino nel 2024, le autorità hanno inflitto multe salate — quasi 2.700 euro — e in alcune città, come Milano, si è arrivati persino alla sospensione della licenza.
È ciò che dovrebbe accadere anche in questo caso: non per sete di vendetta, ma per una semplice questione di civiltà. Perché un servizio pubblico non può tollerare simili abusi. Se non si è in grado di garantire il trasporto di tutti i cittadini, allora non si è adatti ad esercitare quel servizio. Punto.
Le associazioni di categoria continuano a chiedere corsi di aggiornamento, campagne informative, sensibilizzazione. Giusto. Ma finché non si capirà che la disabilità non è una categoria a parte, ma una condizione umana che tutti, prima o poi, potremmo vivere, continueremo a trattare questi episodi come fastidiosi incidenti di percorso. E invece no: sono spie di un malfunzionamento collettivo, di una cultura ancora troppo miope, troppo distratta, troppo pronta a compatire, ma troppo lenta a includere davvero.
Katia, con la sua dolcezza ferma, ha accettato le scuse. “Mi sono sentita trattata con disponibilità e affetto”, ha detto. E ha aggiunto, con grande generosità, di avere capito che le istituzioni locali si sono impegnate molto in questi anni per rendere le città più accessibili. Una donna cieca, che vede più lontano di tanti altri. E forse è proprio questo che dà più fastidio: la sua compostezza. Il suo non urlare. Il suo non pretendere altro che rispetto. Perché a ben guardare, l’unica “bestia” in questa storia, non ha quattro zampe.