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Quando la libertà fa paura: la storia della famiglia che ha scelto il bosco

Barbara Leone
 
Quando la libertà fa paura: la storia della famiglia che ha scelto il bosco

L'essenziale è invisibile agli occhi, scriveva Antoine de Saint-Exupéry ne Il piccolo principe. Una frase che sembra calzare perfettamente alla vicenda di Catherine Birmingham e Nathan Trevallion, la coppia finita nel mirino della giustizia minorile, e soprattutto dei media, per una colpa tanto grave quanto sfuggente: aver scelto di vivere diversamente.

 

Quando la libertà fa paura: la storia della famiglia che ha scelto il bosco

 

I due hanno lasciato l’Australia e la Gran Bretagna per vivere in un casale (comprato regolarmente) nell’entroterra abruzzese, tra le colline di Palmoli, in provincia di Chieti. Hanno tre figli, un pozzo, dei pannelli solari, un camino,tanti animali e un’idea di libertà che non contempla la connessione permanente.

 

Hanno rifiutato il comfort come regola, l’obbligo come dogma, il consumo come riflesso automatico. E per questo, oggi, sono sotto indagine. La loro storia, esplosa sulle cronache dopo un ricovero per intossicazione da funghi, ha acceso un dibattito che somiglia a uno specchio incrinato: da un lato l’immagine di una famiglia che vuole crescere i figli a contatto con la natura, lontano dal rumore del mondo; dall’altro quella di uno Stato che interviene, preoccupato per la mancanza di acqua corrente, di bagni moderni e di rapporti sociali regolari. Il Tribunale dei Minori dell’Aquila ha aperto un fascicolo, si parla di limitazione della responsabilità genitoriale e persino di affidamento dei bambini.

 

Eppure, nessuna violenza, nessun degrado, nessuna povertà. Solo una scelta di vita radicale. L’avvocato Giovanni Angelucci, che difende i genitori, ha precisato che la famiglia è economicamente autonoma, proveniente da una solida borghesia anglosassone, e ha deciso di trasferirsi in Italia «non per necessità, ma per convinzione». Convinzione di cosa, esattamente? Forse che l’infanzia debba respirare aria vera, e non soltanto quella condizionata dei centri commerciali.

 

Forse che la curiosità possa nascere dal contatto diretto con le cose, non solo dalle pagine di un libro. Forse che la scuola non sia l’unico luogo possibile per imparare. Non a caso, in Australia e nel Regno Unito l’unschooling - un metodo educativo basato sull’apprendimento spontaneo e sull’autonomia del bambino - è una pratica riconosciuta. In Italia, invece, è un’eccezione che inquieta. La reazione pubblica, e soprattutto mediatica, è stata feroce.

 

Giornalisti, telecamere, curiosi: tutti accalcati a Palmoli, a caccia della “famiglia nel bosco”. Come se Catherine e Nathan fossero i protagonisti di un esperimento antropologico, non persone. Come se la loro scelta, anziché privata e consapevole, fosse un’offesa all’ordine costituito. La cronaca li ha trasformati in un “caso”, in una storia da guardare con un misto di stupore e sospetto. Perché, in fondo, ciò che non aderisce alla norma spaventa.

Ma la domanda vera, e che riguarda noi più che loro, è un’altra: cosa ci disturba tanto in chi decide di uscire dalla ruota del criceto dove noi corriamo per tutta la vita senza arrivare mai da nessuna parte? Viviamo in una società che idolatra la connessione ma teme il silenzio. Dove i bambini imparano a scorrere un touchscreen prima ancora di allacciarsi le scarpe, e dove l’indipendenza è un concetto più estetico che reale. Nelle città si cresce tra l’ansia da prestazione e il culto della produttività. Si imparano presto le gerarchie, i voti, il merito. E si respira la competizione come un’aria invisibile ma onnipresente. È una forma di gabbia dorata: la libertà come illusione di scelta, il benessere come misura di valore, la sicurezza come sinonimo di conformità. Chi esce da questa enorme Matrix viene guardato con diffidenza, come un eretico. Eppure, se si scava appena sotto la superficie, si scopre che la “normalità” che difendiamo con tanto ardore non è poi così sana.

 

I dati sull’ansia infantile, sui disturbi da iperconnessione, sulle difficoltà relazionali degli adolescenti raccontano un disagio profondo, ma istituzionalmente accettato. Catherine e Nathan, forse, rappresentano proprio ciò che non vogliamo vedere: la possibilità di un’altra forma di vita. Non necessariamente migliore, ma diversa. E la diversità, in tempi di standardizzazione emozionale, fa paura. Fa paura a chi ogni giorno si sveglia, va al lavoro per pagare bollette sempre più care, accende la televisione per farsi dire cosa pensare, mette i figli davanti agli schermi perché non c'è tempo, compra cose che non servono per sentirsi vivo. Non è un caso che la sociologia contemporanea parli di “società della performance”: un mondo in cui l’essere coincide con il produrre, e dove l’identità è continuamente misurata da parametri esterni. Uscire da questo circuito significa sottrarsi al giudizio, e dunque al potere. E vedere qualcuno che ha tagliato i ponti col conformismo di un sistema imposto dall’alto è inquietante. Significa che forse si può fare diversamente. Significa che le sbarre della nostra gabbia, forse, le abbiamo costruite noi.

 

Ora, è comprensibile e anche giusto che le autorità vogliano assicurarsi che quei bambini siano tutelati, curati, istruiti. Ma è altrettanto necessario chiedersi se la tutela non stia diventando, talvolta, una forma di imposizione culturale. Perché la libertà educativa, sancita anche dalla Costituzione, non è un lusso per pochi, ma un diritto. E se davvero i bambini stanno bene, se sono amati e seguiti, se crescono in salute e con curiosità, allora forse il problema non è il bosco: è la nostra incapacità di concepire un modello di felicità che non assomigli al nostro. Forse il problema siamo noi, che viviamo in un’epoca che ha paura della lentezza, del contatto, del silenzio. Dove i gesti elementari - accendere un fuoco, raccogliere l’acqua, ascoltare il vento - sembrano residui arcaici. Eppure sono proprio quei gesti che costruiscono la percezione del mondo. Privarci di essi, come ricorda la psicologia ambientale, significa atrofizzare la parte sensoriale e simbolica dell’esperienza umana.

 

La verità è che  Catherine e Nathan non sono mostri né guru. Hanno semplicemente fatto una scelta estrema, forse discutibile, certo complessa. Ma hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla logica del “si è sempre fatto così”. E questo, in un’epoca di obbedienze tranquille, è già una forma di resistenza. Non sappiamo come finirà la vicenda giudiziaria. Ma resta una domanda, silenziosa, che attraversa tutta questa storia: chi è davvero libero, oggi? Chi vive senza tv e connessione, o chi non può più vivere senza?

 

Forse il confine tra la libertà e la prigionia non passa tra un casale nei boschi e un appartamento in città con tutti i comfort. Passa dentro di noi, tra ciò che vediamo e ciò che, come scriveva Saint-Exupéry, resta invisibile agli occhi.

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