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Bohemian Rhapsody, delirio geniale che ha cambiato la musica per sempre

Redazione
 
Bohemian Rhapsody, delirio geniale che ha cambiato la musica per sempre

«Sei impazzito?». Elton John non usò mezzi termini la prima volta che ascoltò quel brano mastodontico da sei minuti. «Le radio non la passeranno mai!», decretò senza esitazione. E invece eccoci qui, cinquant’anni dopo, a rendere omaggio al giorno in cui un manipolo di ragazzi, passati poi alla storia come i Queen, decise di mandare all’aria ogni regola del pop.

I cinquant’anni di Bohemian Rhapsody: delirio geniale che ha cambiato la musica

Era un pomeriggio come tanti a Londra quando Freddie Mercury si rivolse al produttore Roy Thomas Baker: «Voglio farti sentire una cosa». Si sedette al pianoforte e iniziò a suonare una ballata ancora senza titolo. «Che ne pensi?», chiese con il suo solito sorriso sornione. «Mi sembra molto buona», rispose Baker. Ma il colpo di scena doveva ancora arrivare. «Ok, ora ascolta. Qui è dove comincia la parte operistica». Baker lo fissò perplesso. «La parte operistica?». E Freddie, deciso: «Certo».

La reazione del produttore fu immediata: «Oh my God». Prima scoppiò a ridere, ma l’espressione di Freddie era fin troppo seria per scherzare. Quel “folle” voleva davvero fondere rock e lirica in un singolo destinato alle radio. Quella sera, tra bicchieri di vino e risate di stupore, anche Brian May, Roger Taylor e John Deacon finirono per dire sì a quella visione audace. Dopotutto, quando Freddie aveva un’idea in testa, era impossibile fermarlo. E per fortuna. Perché in quel momento stava prendendo forma Bohemian Rhapsody: un delirio geniale, che avrebbe riscritto per sempre la storia della musica moderna.

Agosto 1975, studi Rockfield, Galles. Freddie Mercury arriva con una pila di fogli stropicciati, annotazioni su pezzi dell’elenco telefonico, scarabocchi scritti in una calligrafia indecifrabile, che sembrava arabo antico. Gli altri lo osservavano con quella miscela di ammirazione e timore riservata ai visionari: solo nella mente caotica di Freddie tutto aveva un ordine.

Sognava di creare qualcosa che nessuno avesse mai udito prima, un viaggio sonoro che iniziasse come una ballata, esplodesse in un delirio operistico - con tanto di “Galileo Figaro Magnifico” - per poi precipitare in un turbine hard rock e dissolversi infine in un sussurro, lasciando solo una voce e un pianoforte. Tre settimane di registrazioni ossessive, 180 sovraincisioni vocali, sei studi diversi. Il nastro magnetico fu riavvolto così tante volte che diventò quasi trasparente, sul punto di spezzarsi. Ma loro non si fermarono. Erano posseduti da quella follia creativa. L’unico momento inciso al primo tentativo fu l’assolo di Brian May: quando imbraccia la chitarra, non ha bisogno di seconde prove. Quando il lavoro fu completato, arrivò l’ostacolo più grande: la EMI era terrorizzata. «Sei minuti? State scherzando, vero?».

I dirigenti volevano tagliare, accorciare, rendere tutto più “commerciale”. Ma i Queen non cedettero: o tutto, o niente. Così decisero di fare ciò che ogni vero ribelle fa quando il sistema chiude le porte: lo aggirarono. Kenny Everett, dj radiofonico e amico fidato, ricevette una copia del nastro con una raccomandazione volutamente ingannevole: «Non la trasmettere, mi raccomando». Strizzata d’occhio. Complicità. Nel giro di un fine settimana, Capital Radio trasmise Bohemian Rhapsody quattordici volte. Il lunedì mattina Londra era in delirio: i negozi di dischi presi d’assalto da gente che cercava un singolo che, ufficialmente, ancora non esisteva. La EMI dovette arrendersi e stamparlo in fretta. Era il 31 ottobre 1975. Un venerdì, esattamente come oggi.

Ma la rivoluzione non si fermò lì. I Queen, di fatto, stavano per inventare il videoclip moderno. Chiamati a esibirsi a Top of the Pops, si accorsero di avere già un concerto fissato per lo stesso giorno. Anziché cancellare, decisero di girare un video. Budget: quattromila sterline. Risultato: un gioco di luci psichedeliche, primi piani teatrali, effetti artigianali ma magnetici. Quando andò in onda, il 20 novembre, il pubblico restò senza parole. Nessuno aveva mai visto nulla di simile. MTV sarebbe nata sei anni dopo, ma l’idea era già tutta lì. Nove settimane in vetta alle classifiche britanniche. Un milione di copie vendute in due mesi. Poi, la domanda eterna: ma cosa significa davvero questa canzone? Freddie sorrideva, evasivo: «Non lo so». Oppure: «Sono sciocchezze che fanno rima».

Bugiardo magnifico. Bohemian Rhapsody era tutto: il suo coming out travestito da operetta rock, i sensi di colpa verso la madre, la morte simbolica del vecchio Freddie per lasciare spazio all’artista che sarebbe diventato. «Mamma, ho appena ucciso un uomo» non parlava di un delitto, ma di metamorfosi: quel momento in cui ti guardi allo specchio e capisci che non puoi più fingere di essere qualcun altro.

Brian May ha sempre saputo la verità, ma non l’ha mai rivelata: «Anche se lo sapessi, non lo direi». Giustamente. Perché alcuni misteri vivono di bellezza irrisolta, e proprio quella coltre di ambiguità ha trasformato sei minuti di musica in un’ossessione collettiva che resiste da mezzo secolo. Bohemian Rhapsody tornò al numero uno nel 1991, alla morte di Freddie, e di nuovo nel 2018 grazie al film che ne raccontò la genesi. Oggi conta oltre due miliardi di streaming, è stata proclamata “canzone del secolo” dalla BBC e considerata da molti la più grande di sempre. Ma le classifiche, alla fine, non sono ciò che conta. Conta che ogni volta che parte quell’intro a cappella la pelle si increspi ancora, che quando Freddie grida “Magnifico!” tu voglia urlare con lui, e che quel finale sussurrato riesca ogni volta a spezzarti il cuore, come se fosse la prima.

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