È la bambola per eccellenza, quella che ha arredato camerette e immaginazioni per intere generazioni di bambine di tutto il mondo. Viveva in una casa rosa, vestiva di rosa, guidava una decappottabile rosa e possedeva un numero di tacchi e borse tale da far impallidire perfino Carrie Bradshaw. Il suo era un mondo fatto di sorrisi smaglianti, curve scolpite e sogni levigati come plastica lucida. Un’icona, certo, ma anche l’immagine irraggiungibile di una perfezione che non ammetteva smagliature, fragilità, malattie.
Barbie, icona inclusiva: ora anche con diabete di tipo 1
Oggi, però, la biondissima Barbie porta un sensore glicemico sul braccio, una pompa per insulina agganciata alla cintura e una borsetta capiente dove infilare snack, misuratore e coraggio. Non sfreccia più sulla Pacific Coast Highway, ma affronta ogni giorno la sfida concreta del diabete di tipo 1. Ed è una rivoluzione. Silenziosa, sì. Ma fondamentale. La notizia, rilanciata da The Guardian, merita attenzione: Mattel ha annunciato il lancio della prima Barbie affetta da diabete di tipo 1, un’aggiunta alla collezione “Fashionistas” che negli ultimi anni si è arricchita di modelli sempre più rappresentativi della diversità umana. “Barbie aiuta a plasmare la percezione precoce del mondo da parte dei bambini”, ha dichiarato Krista Berger, vicepresidente senior e responsabile globale delle bambole per Mattel.
“E rispecchiando condizioni mediche come il diabete di tipo 1, garantiamo che più bambini possano riconoscersi nelle storie che immaginano e nelle bambole che amano”. Non un semplice gioco, ma un gesto culturale. Del resto Barbie, nata nel 1959 da un’idea visionaria della businesswoman Ruth Handler, ha percorso un lunghissimo viaggio dalle passerelle alla vita reale. E così, dopo decenni di modelli irraggiungibili, oggi finalmente la bambola più famosa del mondo si avvicina alle sfumature della realtà e anche della fragilità umana.
La nuova Barbie diabetica non è soltanto un’operazione estetica: è frutto della collaborazione con Breakthrough T1D, organizzazione no-profit impegnata nella ricerca sul diabete di tipo 1. Indossa un monitor glicemico continuo (CGM), tiene con sé un cellulare dotato di app per il controllo dei valori, e sfoggia un cerotto rosa a forma di cuore – ça va sans dire – in perfetto stile Barbiecore. “Per i bambini con diabete di tipo 1 che spesso non si vedono rappresentati”, ha detto Karen Addington, CEO di Breakthrough T1D UK, “questa bambola sarà un potente modello di riferimento, che celebrerà la loro forza e porterà riconoscimento, inclusione e gioia al loro gioco”.
Ecco, la parola chiave è riconoscimento. Perché la rappresentanza non è un vezzo da progressisti, ma una necessità concreta: per un bambino affetto da una malattia cronica, vedere la propria condizione normalizzata in un giocattolo può significare la differenza tra sentirsi accettati o sentirsi alieni. Come sottolinea anche Arjun Panesar, CEO di diabetes.co.uk: “La rappresentanza è importante, soprattutto durante l’infanzia. Vedere una bambola Barbie con il diabete di tipo 1 aiuta a normalizzare la condizione, a ridurre lo stigma e a mostrare ai bambini che non sono soli”.E per chi è cresciuto negli anni '80 e '90, fa un certo effetto, in positivo ovviamente, pensare alle tante Barbie con disabilità.
Oggi, infatti, la linea comprende più di 175 diverse combinazioni di corpi, tonalità di pelle, disabilità visibili e non visibili, professioni storicamente maschili e persino Barbie con la vitiligine. La strada imboccata, insomma, è quella giusta. Altro che stereotipi biondi e patinati. Ma sarebbe ingeneroso pensare che tutto questo sia solo una strategia per stare al passo coi tempi. Dietro questa nuova Barbie c’è la consapevolezza che i giocattoli non sono solo giocattoli, ma strumenti simbolici e narrativi. Perché in fondo, ogni bambola è un piccolo specchio in cui i bambini cercano – e spesso faticano a trovare – il riflesso di sé. E poi, diciamolo: anche la dimensione ludica merita dignità.
È facile liquidare questa notizia con un'alzata di spalle, pensando “ma sì, è solo una bambola”. Proviamo a ricordarci di quando avevamo sei, sette anni. Il modo in cui ci identificavamo nei nostri giochi, l’orgoglio di avere una bambola “come noi”, o la frustrazione di non vederci rappresentati in nessun pupazzo sugli scaffali. Oggi che l’inclusività è diventata – talvolta – una parola usurata, spogliata del suo valore profondo, un gesto come quello di Mattel appare tanto più potente perché è concreto. E non è isolato: anche Lottie, un altro brand di bambole, ha proposto modelli con sindrome di Down e autismo, mentre Lego ha introdotto minifigure con disabilità fisiche e sensoriali.
Ma Barbie, si sa, è ancora la regina del regno, e quando lei fa un passo, il mondo si inchina. Certo, non mancheranno i cinici pronti a parlare di marketing della diversità, ma forse è ora di smettere di vedere strategia e etica come nemici giurati. Se una scelta aziendale produce effetti positivi nel vissuto di bambini fragili, se può alleviare lo stigma e aprire spazi di gioco più accoglienti, beh... che ben venga anche il ritorno economico. Inclusione e profitto, per una volta, possono coesistere.
Perché quello di Barbie non è solo un cambiamento estetico, ma un passo culturale che parla a milioni di bambini che, fino a ieri, non si erano mai visti davvero. Ed il fatto che a portare avanti questa trasformazione sia un giocattolo, ci ricorda che i cambiamenti culturali passano anche dalle corsie dei supermercati, dai compleanni, dalle mani delle bambine e dei bambini. In fondo, Barbie è sempre stata ciò che volevamo vederci. Oggi, finalmente, è anche quello che siamo.